IL CONCERTO
Immensi Thom Yorke e Radiohead
La band inglese e il suo frontman conquistano i sessantamila dell’autodromo di Monza con uno show perfetto tecnicamente e carico di emozioni. Il ritorno di “Creep”
Premessa 1: i Radiohead sono il più importante gruppo rock mondiale dagli anni novanta ad oggi. Premessa 2: Thom Yorke è il frontman, leader e autore della stragrande maggioranza dei testi della band. Conclusione: Thom Yorke è Dio.
Blasfemia a parte, un concetto molto simile a quello espresso sopra, sotto forma di falso sillogismo, è stampato a fuoco nelle menti e nei padiglioni auricolari dei quasi sessantamila che venerdì 16 si trovavano all’Autodromo di Monza per la seconda tappa italiana del tour 2017 della band di Oxford. All’uscita dal parco brianzolo l’idea di aver assistito a qualcosa di storico, di “fondamentale”, brillava negli occhi del ventenne di Treviso come del quarantenne di Varese e dell’over 50 - che scrive - colpevole di aver atteso il 2017 prima di concedersi una serata in compagnia di Yorke, dei fratelli Grenwood, Colin e Jonny, di Ed O’Brien e Philip Selway.
Perché il concerto dei Radiohead, al di là della presunta carenza di presenza scenica di Thom e magari, chissà, di un suo altrettanto presunto calo vocale (il nostro va per i 49, con oltre 25 anni di carriera alle spalle), al di là delle paure dell’ultima ora che hanno fatto proliferare l’offerta di biglietti in rete e sui social da parte di acquirenti “pentiti”, ha clamorosamente smentito ogni tipo di timore della vigilia.
Due ore abbondanti, 25 brani distribuiti sull’intera carriera della band, dal debutto di Pablo Honey (1992) all’ultimo, eccellente A Moon Shaped Pool (2016), con tantissimo spazio destinato alla pietra miliare Ok Computer (‘97) e al più recente In Rainbows (2007). Una scaletta che ha quasi fatto gridare al miracolo: accanto agli immancabili Paranoid Android, Airbag, No surprises, Fake Plastic Trees, quando alla seconda tornata di bis Thom Yorke ha annunciato «Questa non si può fare» per poi partire con “When you were here before”, l’incipit di Creep, l’emozione è diventata palpabile commozione. Perché negli ultimi dieci anni si contano sulle dita di una mano le esecuzioni live del primo successo della band, perché quando il ritornello esplode nello straziante «What the hell am I doing here, I don’t belong here», la voce di Yorke è stata accompagnata/cancellata da sessantamila persone che gridavano all’unisono. Alla faccia della mancanza di comunicatività e di empatia. Uno Yorke in grandissima forma, vocalmente “tirato” e comunicativo sia pure nei limiti delle forse cento parole in tutto pronunciate (quasi tutte in italiano). E intorno a lui una band precisa come un cronografo svizzero, con i ricami delle chitarre a tessere trame sognanti che trasportano l’ascoltatore in una sorta di viaggio mentale. C’è tanta psichedelia, soprattutto nella prima parte del concerto, c’è tanta sapienza compositiva, variazioni di stile, controtempi, tempi dispari, momenti che richiamano il progressive rock al quale in parte i Radiohead si ispirano e che per molti hanno saputo rivitalizzare sia pure mantenendosene ai confini. Ci sono momenti in cui l’elettronica sfiora addirittura la techno, c’è sano rock. Alla fine, senza cercare a tutti i costi una definizione di genere, resta la sensazione di un grande evento, dove la musica vince su tutto. Due ore abbondanti in cui sognare, dimenticare il resto, farsi trasportare da quell’ex ragazzo inglese scoordinato e timido ma che trasuda carisma da ogni poro. E che nell’ultimo minuto di una serata che i sessantamila avrebbero voluto non finire mai li abbraccia uno per uno, tutti uniti a cantare «For a minute there I lost myself,I lost myself» (Karma Police). E poi via, con gli occhi brillanti e i suoni che ancora echeggiano nella mente.
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