SISTEMA SANITARIO
«Mio padre non meritava di morire così»
Anna Bossi denuncia le difficoltà nell’accedere a cure e posto letto. «Personale straordinario, ma la tanto decantata eccellenza è ben lontana»
«Mio padre non meritava di morire così, affrontando nell’ultimo tratto della sua vita, oltre al dramma della malattia, anche la difficoltà di passare ore in Pronto soccorso, di faticare per ottenere un posto letto, di essere sballottato da un reparto all’altro. No, non è stato civile». Anna Bossi non ce l’ha però con gli operatori sanitari dell’ospedale di Busto Arsizio, «perché in Oncologia abbiamo trovato persone straordinarie e preparate, che fanno un lavoro professionale seppur stremante sotto tutti i punti di vista». Lei, a nome della famiglia, si espone per dare un volto a una denuncia, attacca «un sistema che non ti aiuta, non ti accoglie come dovrebbe, ti costringe a vivere il dolore in modo ancor più pungente di quanto già non sia».
Suo papà Marco Bossi, personaggio notissimo in città, si è spento poco più di un mese fa. Metabolizzata in qualche modo la perdita, «adesso è però giusto che chi ha vissuto un’esperienza tanto traumatica faccia sentire la propria voce, cercando di far comprendere a chi gestisce l’organizzazione della sanità pubblica, della tanto decantata “eccellenza lombarda”, che bisogna intervenire concretamente». Direttamente alla struttura di via Arnaldo Da Brescia ha lasciato il proprio esposto, raccontando le difficoltà vissute dal padre («affetto da un mieloma multiplo giunto al terzo stadio B, quindi ormai in una fase avanzatissima») per riuscire a trovare un letto libero in quel reparto che avrebbe potuto lenire le sue sofferenze. «Quando con fatica e fortuna gli hanno dato un letto, ha trovato professionalità e umanità - insiste la figlia - ma non potrò mai dimenticare le ventidue ore passate in pronto soccorso, notte compresa, in un contesto assolutamente inadeguato e stressante per la sua patologia, abbandonato su una sedia a rotelle e poi per il dolore trasferito su un “lettino” in corridoio, aspettando una trasfusione arrivata solo il giorno dopo. Non dimenticherò neppure il girovagare in altri reparti, per tamponare la mancanza, sottoporlo a faticosi trasporti per fare le cure».
Un calvario che in tanti, prima della famiglia Bossi, hanno dovuto vivere dentro un ospedale che deve sottostare alle regole organizzative che spingono per ridurre il più possibile la degenza, per evitare il sovraccarico o i ricoveri inutili, ma che finisce anche per penalizzare chi invece dovrebbe essere accolto e seguito nella fase più difficile della patologia. «Perché è vero che mio padre, che da gennaio al 6 marzo ha vissuto il suo calvario, non avrebbero purtroppo potuto salvarlo. Tuttavia in quelle settimane già lancinanti, ha dovuto affrontare mille inutili ostacoli che lo hanno spossato».
Anna, unita con tutti i parenti, sceglie di raccontare la sua storia alla Prealpina «anche se è davvero un dolore rivivere ancora tutto». Lo fa, perché «noi non cerchiamo un risarcimento, né puntiamo il dito contro chi lavora in quelle condizioni. Il punto è stimolare una riflessione, far capire che il sistema di cui tanti politici si vantano in realtà non è sempre rispettoso delle persone e purtroppo non funziona. Sapere che il nostro suggerimento verrà ascoltato e porterà magari a delle migliorie oltre a delle risposte concrete, potrebbe essere un piccolo gesto in omaggio a papà, ma anche a tutti quelli che si sono trovati a vivere nelle stesse condizioni».
© Riproduzione Riservata