L’INCHIESTA
Binda, ecco le accuse
Il Tribunale ha fissato l’udienza il 19 dicembre. Cinque le aggravanti contestate al presunto killer di Lidia Macchi
Dopo aver ricevuto la richiesta di rinvio a giudizio del sostituto procuratore generale Carmen Manfredda, il Tribunale di Varese aveva cinque giorni al massimo per fissare l’udienza preliminare, per decidere il destino processuale di Stefano Binda, in carcere da quasi 11 mesi per l’omicidio di Lidia Macchi.
I tempi sono stati rispettati: l’udienza preliminare si terrà il prossimo 19 dicembre nel Palazzo di Giustizia di piazza Cacciatori delle Alpi.
All’udienza potrà dunque partecipare, come da previsione, anche il magistrato che ha guidato le indagini da tre anni a questa parte, da quando cioè l’allora avvocato generale Laura Bertolè Viale chiese e ottenne l’avocazione del fascicolo “gestito” per oltre 26 anni dall’ex pm di Varese Agostino Abate e che, a fine anno, dovrebbe lasciare la magistratura per raggiunti limiti di età.
Il punto di partenza del procedimento è il capo d’imputazione, come da avviso di conclusione delle indagini della Procura Generale.
«La sera del 5 gennaio 1987, dopo aver incontrato Lidia Macchi nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio, ed essersi accompagnato all’amica nella sua auto - si legge -, Binda raggiungeva la zona boscosa del Sass Pinì dove, dopo la consumazione di un rapporto sessuale, ottenuto con minaccia e costrizione, la aggrediva colpendola reiteratamente alla gola, al collo e al torace e, successivamente, mentre la ragazza tentava la fuga, alla coscia sinistra e alla zona dorsale con 29 coltellate tali da cagionare alla vittima numerose lesioni che ne determinavano la morte per anemia e asfissia dopo penosa agonia».
Delle cinque aggravanti contestate dalla Procura Generale, ne spiccano due: quella di aver agito «per motivi abietti e futili», consistenti «nell’intento distruttivo della donna considerata causa di un rapporto sessuale vissuto come tradimento del proprio ossessivo e delirante credo religioso, tradimento da giustificarsi con la morte», e quella di aver agito «con crudeltà».
Quest’ultima aggravante, così come descritta dal sostituto pg Manfredda, richiama esplicitamente alcuni passaggi della lettera anonima indirizzata alla famiglia Macchi e attribuita al quarantanovenne di Brebbia da una consulenza tecnica. L’aggravante della crudeltà si sarebbe manifestata attraverso «modalità efferate».
Come?
Infliggendo «a Lidia Macchi, su tutto il dorso, raffiche di colpi a gruppi di tre, che «straziavano le carni» (prima citazione del poema anonimo, ndr) della vittima, abbandonata agonizzante in una «notte di gelo» (altra citazione, ndr) contro ogni sentimento di umana pietà».
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