IL PROCESSO
Bossi jr resta senza avvocato
Imputato per truffa, il figlio del senatur mollato all’ultimo dal difensore storico
Il processo a Riccardo Bossi è partito in salita. Per l’imputato. Il figlio del senatur - accusato di truffa alla gioielleria Ceccuzzi - è rimasto senza lo storico avvocato all’ultimo momento. Agostino Maiello gli ha comunicato la rinuncia al mandato solo la sera di martedì 27 settembre. Così, senza neppure avere il tempo di dare uno sguardo alle carte, in scena è entrato il collega Stefano Banfi.
Ma ormai Bossi junior è decaduto dalla possibilità di indicare testi a difesa. L’udienza di mercoledì 28 settembre è stata quindi rapidissima: il giudice Giulia Messina ha concesso un rinvio al nuovo avvocato, che ha chiesto i termini per sondare la via del risarcimento. Ma i fatti risalgono al 2014 e se in due anni nessuno si è mai presentato all’ingresso del negozio di piazza San Giovanni con un assegno, è difficile credere che accada ora.
Nel frattempo comunque Bruno e Alessandra Ceccuzzi, assistiti dall’avvocatoFederico Consulich, hanno depositato la costituzione di parte civile, nella speranza di un ristoro almeno parziale del danno subito.
Il Natale del 2014 era alle porte e Riccardo Bossi mai si sarebbe presentato sotto un abete verde celtico a mani vuote. E neppure con regali indegni di un nome così impegnativo.
Il trentasettenne primogenito di Umberto si presentò in gioielleria forte della sua notorietà e delle rassicurazioni offerte da chi ingenuamente garantì per lui.
Gli vennero mostrati i pezzi più esclusivi dei preziosi che scintillavano sotto le decorazioni natalizie e lui scelse il top: un Rolex Daytona in oro bianco e acciaio, un anello e una collana di Bulgari in oro rosa.
L’anello era destinato all’allora fidanzata. Il conto era di 26.480 euro e lui assicurò: «Passo a pagare nei prossimi giorni».
Ma fu a quel punto che, stando al capo di imputazione, iniziarono «gli artifizi e i raggiri».
Prima una mail in cui preannunciava l’imminente bonifico, poi la richiesta di qualche giorno di tempo, giusto per rientrare dalle vacanze, poi l’invito a contattare un direttore di banca, il caposcorta e la segretaria del padre per regolare la faccenda. Peccato che i numeri telefonici forniti risultassero irreperibili. «Passa mio padre a saldare», disse alla fine. Ma del fondatore della Lega Nord neppure l’ombra.
«È tutto un malinteso, ci siamo solo capiti male»: si sarebbe giustificato così davanti agli investigatori della Questura di Varese - coordinati dal pubblico ministero di Busto Francesca Parola - quando l’anno scorso si fece interrogare per chiarire la truffa a Ceccuzzi.
Nel frattempo però gli inquirenti avevano scoperchiato decine di malintesi dello stesso genere, capitati un po’ ovunque.
Sicché all’imputato è contestata anche la recidiva.
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