LA PERIZIA
«Capaci d’intendere e volere»
L’esito delle perizie su Leonardo Cazzaniga e Laura Taroni non lascia più dubbi: hanno ucciso, sapendo di uccidere
Leonardo Cazzaniga e Laura Taroni sono capaci d’intendere e di volere e lo erano anche all’epoca dei fatti contestati loro dalla Procura della Repubblica, ossia dell’incredibile serie di omicidi di cui sono accusati.
Lo hanno stabilito i periti Isabella Marzagora e Franco Martelli, nominati dal giudice Sara Cipolla lo scorso settembre in sede di udienza preliminare.
Cazzaniga risulterebbe però affetto da un disturbo narcisistico della personalità che comunque non inficia le sue facoltà psichiche.
I risultati delle perizie, da comparare con quelle di parte, verranno analizzati il 10 gennaio in aula, quando saranno ascoltati gli psichiatri che hanno svolto gli accertamenti.
Lunedì e martedì invece saranno giornate dedicate all’incidente probatorio dell’ex infermiera, imputata per i delitti del marito Massimo Guerra, del suocero Luciano e della madre Maria Rita Clerici.
La donna verrà interrogata dal pubblico ministero Maria Cristina Ria e dal procuratore capo Gian Luigi Fontana proprio in ordine ai suoi rapporti con le tre presunte vittime, alle dinamiche relazionali tra loro e poi sugli episodi che l’hanno portata alla sbarra insieme al suo compagno, l’ex vice primario del pronto soccorso Leonardo Cazzaniga.
La posizione di quest’ultimo è quella più delicata: oltre ai famigliari di Laura, il medico avrebbe «accompagnato alla morte» altri nove pazienti del suo reparto.
Il suo speciale protocollo composto da un mix di midazolam, ipnovel, morfina e profol sarebbe stato somministrato ai degenti per alleviare le loro sofferenze, o almeno questo è quel che Cazzaniga avrebbe dichiarato durante l’unico interrogatorio reso al gip.
«Si trattava di farmi carico e prendermi cura di quei pazienti che sarebbero morti di lì a poco, allo scopo di evitargli l’agonia» spiegò.
«Ho commesso questi atti medici, l’ho fatto per alleviare le loro sofferenze essendo i pazienti in fase terminale o preterminale. Erano malati in condizioni terminali, intendo minuti, mezz’ore, ore. Per me era semplicemente accompagnarli alla morte».
Cazzaniga durante l’interrogatorio si difese chiamando in causa «il nostro Ippocrate».
«Primum sedare dolorem, questo duemila anni fa e lì stava il nucleo centrale della nostra attività. Nel corso degli anni, vedendo situazioni sempre più drammatiche in pronto soccorso, anche fenomeni di accanimento terapeutico da parte dei miei colleghi, e molti miei colleghi, ho maturato la convinzione che fosse inumano e anti pietas comportarsi sul morente in modo accanente».
La soluzione quindi per lui sarebbe stata una somministrazione di «morfina, midazolam e largactil, in dosaggi un po’ superiori rispetto alla norma (...) in questi casi non si trattava solo di dolore, ma di sofferenza correlata alle immediate fasi della morte. In una persona sana non avrebbero nemmeno avuto effetto».
Per far comprendere al giudice la gravità dei pazienti trattati, Cazzaniga presentò l’esempio di Giuseppe Vergani, il cui decesso rientra nei nove contestati dalla Procura.
«Era un paziente che arrivava da una residenza sociosanitaria, entrò in codice rosso, con un quadro di sepsi severa e un’insufficienza respiratoria. Avrebbe avuto una vita brevissima».
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