LA TESTIMONIANZA
«Catene e digiuno: un inferno»
Rolando Del Torchio racconta i sei mesi di prigionia in balìa dei terroristi islamici nelle Filippine
«La prima cosa che ho fatto appena giunto a Malpensa? Ho abbracciato la mia famiglia. Un abbraccio in cui l’uno si fonde nell’altro. È stata una sensazione splendida: il più bell’abbraccio della mia vita, la migliore medicina. Desideravo non finisse mai».
Sono attimi lunghissimi e densi di emozione quelli raccontati da Rolando Del Torchio, l’ex missionario 56enne rapito lo scorso 7 ottobre dal suo ristorante nelle Filippine, poi rilasciato l’8 aprile e rientrato in Italia il 25 aprile. Sceglie con cura le parole per raccontare l’arrivo a casa e i suoi sei mesi di prigionia, nella giungla delle Isole Sulu, in mano ai terroristi islamici del gruppo Abu Sayyaf, che si ispira all’Isis ma non ne sarebbe collegato. Aggiunge sul suo rientro: «Mia sorella mi ha detto Ce l’abbiamo fatta e in quell’istante ho capito l’importanza di essere uniti a conquistare le cose, condividendo tutto. Anche per loro è stato un calvario».
Rolando vuole stare tranquillo, si assicura che non venga svelato dove si trova.
«Ho bisogno del mio angolo di serenità» spiega mentre si accende una sigaretta. Poi, guardando il pacchetto sorride: «Laggiù era proibito fumare, ma dopo qualche mese sono riuscito ad avere le sigarette di nascosto. Avevo perso tutto e le mie due sigarette al giorno erano la rivincita».
Poi si fa cupo: «Non sapevo se sarei tornato a casa: per sopravvivere ho dovuto disconnettermi. La minaccia di morte era concreta. Ho vissuto momenti di profonda angoscia e, superata la paura di morire, ho realizzato che la cosa peggiore che potesse accadermi era vivere con loro per sempre, senza affetti, senza il calore umano e senza gli abbracci. Ecco gli abbracci, erano la cosa che più mi mancava. Un dolore così grande è inimmaginabile, ti rendi conto che la vita precedente finisce. Quante volte sono sbottato: «Fatemi fuori. Anche io ho una causa per cui morire: sollevo la mia famiglia dalla bancarotta. Paradossalmente per me il desiderio di morire era la pace».
Racconta della giungla, dei suoi rapitori, di quando è stato spogliato di vestiti, scarpe e orologio, per rimanere solo in mutande; di come dovesse dormire con le catene ai piedi. E poi le giornate scandite dalla preghiera islamica, le fughe con i guerriglieri e le lunghe ore di cammino. Il cibo scarsissimo, riso per lo più, tanto che ha perso 39 chili. Decisivo il ruolo del suo avvocato Jordanne che si è occupata della mediazione: «Senza di lei non so se ce l’avrei fatta». Rolando si accende un’altra sigaretta, quando sente un rumore dall’esterno sobbalza: «È solo un motorino ma ogni rumore mi mette in allarme».
Riprende poi il racconto: «Lo scorso anno dissi ai miei “ci vediamo ad aprile”. Mentre ero in prigionia, all’inizio di marzo, non avevo segni di un’evoluzione ma mi ripetevo «io devo uscire da qui prima della fine di aprile, io l’ho promesso». Era un pensiero fisso, l’avevo promesso ed è successo. Il 7 è il compleanno di mio fratello, l’8 sono stato liberato e il 9 è il compleanno di mia madre. Credo che ci sia un segno».
La Madonna della Riva?
Ad Angera ogni giorno si pregava.
«Tutti siamo legati alla Madonna della Riva: anche chi non crede, scorre nel nostro sangue. Io prima di partire per la prima volta per le missioni nel 1988, mi affidai a lei».
Rolando rivolge poi il pensiero all’ambasciatore Massimo Roscigno: «Mi ha accolto e protetto nella sua famiglia: il percorso di recupero non l’ho fatto in un hotel o all’ospedale. L’ho fatto in una famiglia che mi ha inondato di calore e affetto: è stato l’inizio e la spinta per dire sei a casa, non preoccuparti. Mi ha fatto un bene incredibile, gliene sarò sempre grato. Ho scoperto che abbiamo delle persone eccezionali, perché in quel momento sono stato protetto e trattato con quell’attenzione e quell’amore fraterno che non mi sarei mai aspettato dalle istituzioni».
E conclude pensando al futuro: «Devo tornare nelle Filippine per lavorare, sicuramente non a Dipolog ma in un altro paese. Certo che se trovassi lavoro in Italia, resterei».
© Riproduzione Riservata