VIA RANCHET
Centro profughi, non si passa
Si può entrare? «Chiami gli uffici». Al parchetto: siamo in troppi. Chiedono i documenti per poter lavorare
Via Ranchet è una strada ad andamento non troppo regolare che entra nel quartiere di Madonna in Campagna, poco oltre l’ingresso dalla rotonda dell’aeronautica. Ci sono villette, una ditta e un caseggiato grande da dove si diffonde musica afro. «Posso entrare? «Lei chi è?». «Un giornalista». «Chiami gli uffici». «Ma io vorrei vedere adesso con i miei occhi cosa c’è lì dentro». «Ora non si può», il tono si fa seccato. «Posso almeno scattare una fotografia?». «Preferirei di no». «Mi può dire il suo nome?». «Ma le pare». In compenso arrivano due tipi di colore, con maglia gialla e scritta Kb. Dovrebbero essere addetti alla sicurezza. Meglio girare la macchina e andarsene. Questa la semplice cronaca di una mattina nel tentativo di mettere piede all’interno del centro profughi di via Ranchet. Dalla prefettura spiegheranno più tardi che non si può entrare in queste strutture senza autorizzazione per ragioni di sicurezza.
A lanciare l’allarme aveva provato, qualche giorno fa, la presidente della consulta rionale di Arnate-Madonna in Campagna Rossana Lombardo, denunciando un quadro molto preoccupante: «Ci hanno raccontato - aveva detto - di essere più di cento, stipati in questo palazzo senza spazi a disposizione». Impossibile verificarlo di persona per il divieto imposto al momento dell’ingresso. Sul caso lo stesso Comune ha promesso massima attenzione. Non è escluso, quindi, che ci siano presto nuovi sopralluoghi dei vigili.
Ma come vivono i profughi lì dentro? Basta fare quattro passi e spostarsi dai cancelli dell’edificio di via Ranchet al parchetto vicino all’oratorio per parlare con loro. Sono lì in una quindicina, poi ne arrivano altri. Chiedono anonimato totale e niente fotografie perché temono ritorsioni da parte di chi comanda nella comunità. Non parlano l’italiano, solo uno si fa capire e svolge il ruolo d’interprete. Le loro storie fanno venire i brividi ma forse è meglio non raccontarle perché poi ci sarebbe l’insensibile di turno pronto a dirti: «Ma tu credi a loro?». Fatto sta che sono arrivati tutti in Italia con i barconi dopo un viaggio pericoloso e spesso luttuoso. C’è chi ha perso il fratello, chi la moglie, chi ha visto i bambini annegare sotto i suoi occhi. Vorrebbero trovare un lavoretto qui e rendersi utili, ma la realtà è fatta di giornate che si susseguono tutte uguali, senza una prospettiva, senza un progetto, senza avere la possibilità di essere uomini ma solo ingranaggi di un sistema che mostra tutte le sue difficoltà.
«In via Ranchet ormai ci saranno 150-160 persone», testimoniano. «Lì, prima o poi, succede qualche casino». L’organizzazione all’interno del centro - secondo quanto raccontano - è affidata a capetti che sono in diretto contatto con la società di gestione. Il loro compito è di tenere calme le acque, ma ormai la pazienza è al limite. «Vogliamo i documenti», vanno ripetendo. Ormai sono passati mesi, in qualche caso anni, ma i profughi restano in un limbo che impedisce loro di fare qualsiasi cosa: non si possono spostare, non possono lavorare, è come se non esistessero. In compenso lo Stato italiano se li è presi in carico. «Piango sempre alla sera», confida uno di loro. Un altro dice: «La pazienza me la dà Dio», e guarda in cielo, «prego». Unico sprazzo di vita è quel giardinetto spelacchiato dove i vicini ti avvicinano e ti sussurrano: «Vieni qui stasera a intervistarli, li trovi tutti ubriachi».
Servizio completo sulla Prealpina di martedì 29 agosto
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