L’INTERVISTA
Con Cecchi, Varese alla fiorentina
Il nuovo assessore si racconta: «Amo Heidegger e My Sharona e valorizzerò i tesori di questa città»
Roberto Cecchi è un fiorentino Doc, nella parlata e nella cultura.
Classe 1949, architetto, una moglie e tre figli, tra i suoi tanti incarichi è stato anche Sottosegretario di Stato del Ministero per i Beni culturali del governo Monti, ed è attualmente membro del consiglio di amministrazione del Fai. Un personaggio autorevole, con un curriculum di peso e una pagina di Wikipedia dedicata.
Lunedì 4 luglio Roberto Cecchi è stato nominato assessore nella nuova giunta di centrosinistra del Comune di Varese, dal sindaco Davide Galimberti: ha una delega per la Cultura che è accorpata ora al Turismo, una delle novità della riorganizzazione della macchina amministrativa voluta dal primo cittadino, eletto al ballottaggio del 19 giugno.
Per sapere chi è Cecchi e che cosa pensa della materia tanto ardua che gli è stata assegnata, gli abbiamo fatto moltissime domande: non ha risposto a tutte, in particolare ha evitato quelle sulla questione e gestione del teatro, e quelle sulle possibili mostre al Castello di Masnago (compreso il vecchio sogno del Morazzone di cui si parla da anni). Ma ha risposto subito, con prontezza e disponibilità.
Roberto Cecchi, lei è fiorentino di nascita e ora vive a Roma, dopo aver lavorato a lungo a Milano: Varese come entra nella sua geografia?
«Varese è entrata nella mia geografia all’inizio della carriera nei Beni Culturali. Quando nel 1980 sono arrivato in soprintendenza - che allora aveva sede a Milano in piazza Duomo - ho avuto come primo incarico l’intera Provincia di Varese che ho tenuto fino a al 1994, quando son diventato soprintendente e son finito in tutt’altra regione».
Sarà un assessore presente: verrà a vivere nella Città Giardino?
«Ho intenzione di essere presente come ho sempre fatto con gli incarichi che ho ricevuto. Mi pare doveroso onorare la fiducia che mi è stata concessa nella maniera migliore possibile. E dunque verrò sicuramente ad abitare in città, anche se non so ancora dove».
Varese ha bellissimi panorami e lei è un motociclista: quale ama di più?
«Direi proprio tutti. Per certi versi l’espressione Città Giardino è un po’ riduttiva, perché tutto il territorio della città e della provincia è di grandissima qualità, un grande giardino».
Il suo curriculum è di pregio: qual è il lavoro di cui è più fiero?
«Difficile scegliere fior da fiore... e tante spine. Sono molto fiero del progetto per il Refettorio delle Grazie, ormai lontanissimo nel tempo, ma da quel che vedo ancora funzionante, per la conservazione e la fruizione dell’Ultima Cena di Leonardo. Anche Brera è stata un’esperienza interessante. Eppoi, le Gallerie dell’Accademia a Venezia. E i Nuovi Uffizi a Firenze. Quindi l’esperienza sull’area archeologica di Roma col restauro del Colosseo. Ma il colpo al cuore, e non sembri piaggeria, l’ho avuto proprio in provincia di Varese».
Dove e quando? Racconti...
«Il giorno in cui, all’inizio degli anni ‘80, trovai l’impianto a spina pesce nella cupoletta della Chiesa di Villa a Castiglione Olona. Era la testimonianza inequivocabile della cultura brunelleschiana che era passata davvero di lì e non solo a parole. E questo mi riconnetteva con gli studi fiorentini di Piero Sanpaolesi su cui mi ero formato e che mi avevano entusiasmato».
Come commissario straordinario di Roma nel 2010 lei ha promosso la sponsorizzazione del restauro del Colosseo da parte di Diego Della Valle, che ha dato 25 milioni di euro, un’operazione che le ha procurato non pochi grattacapi e critiche: lo rifarebbe?
«Certo che lo rifarei. Tutti i progetti di una qualche rilevanza procurano grattacapi. È stato così anche per l’Ultima cena e per le Gallerie dell’Accademia a Venezia. Ma il passare del tempo rende giustizia. Adesso si parla del Colosseo e di quel progetto solo come un fatto positivo. Ci son voluti cinque anni».
L’esempio del Colosseo fa riflettere sul drammatico problema dell’assenza di fondi per la cultura, che a Varese è più sentito che altrove: tenterà anche qui la via della sponsorizzazione?
«L’esperienza del Colosseo, oltre ad essere un importante progetto di conservazione, è anche la dimostrazione che non possiamo pensare che sia solo lo Stato a farsi carico di questo patrimonio culturale imponente non solo in termini di qualità, ma anche dimensionali. La collaborazione del privato è fondamentale».
Il restauro è un capitolo importante del suo lavoro, a Varese ha firmato quello del Chiostro di Sant’Antonino. La sua idea di restauro qual è?
«Restauro è una parte dell’attività di conservazione. L’obbiettivo deve essere quanto più possibile la conservazione del patrimonio culturale nella sua essenza materica. Per citare una frase non mia, di Martin Heidegger, l’opera d’arte sta nella materia di cui è fatta».
In quel chiostro in fondo a corso Matteotti c’era il quartier generale elettorale di Galimberti: crede nelle coincidenze del destino?
«Non molto, ma succede».
Come e quando ha conosciuto Davide Galimberti?
«L’ho sentito la prima volta, per telefono, una decina di giorni fa».
Lei si occuperà del rilancio del Sacro Monte fortemente voluto dal nuovo sindaco, che ha già chiesto dieci milioni di euro al governo Renzi: che linea di lavoro ha in mente?
«La linea è sempre quella: tutela e valorizzazione. Tutela ormai tutti sanno cos’è. Mentre per valorizzazione generalmente si pensa solo alla monetizzazione. In realtà valorizzazione richiede una visione più ampia, già recepita anche dalla legislazione, che significa soprattutto rendere disponibile la conoscenza. Ovvero, in ultima analisi, far crescere la realtà sociale, anche in termini economici, nella condivisione dei suoi valori».
Uno dei problemi del Sacro Monte è arrivarci: anche se lei è assessore alla Cultura e non alla Viabilità, cosa pensa? Si deve usare di più la funicolare? Vanno potenziati i mezzi pubblici? Vanno individuati altri spazi per un eventuale parcheggio, dopo che il tanto criticato progetto della passata amministrazione è stato definitivamente archiviato?
«Il rispetto della natura dei luoghi, l’attenzione a non pregiudicarne l’aura, e cioè il significato più sottile e recondito, è uno dei segreti meno segreti del valore del nostro patrimonio culturale. E quindi il criterio ordinatore è sempre la giusta misura».
Un grande appassionato del nostro Sacro Monte è Philippe Daverio, critico di origini varesine: potrebbe essere tra i suoi collaboratori, se ne avrà?
«Philippe è uno straordinario critico dell’arte e divulgatore appassionato che conosco bene. Sarebbe il benvenuto».
Come organizzerà il suo staff?
«Prima di tutto valorizzando quel che c’è. Come sempre. Poi si vedrà».
Si è parlato di un ponte culturale tra Varese e Firenze, la sua città, dove è sindaco Dario Nardella che ha appoggiato Galimberti nella campagna elettorale: come si concretizzerà questo legame?
«Conosco Nardella anche se non lo sento da anni, ma non conoscevo Galimberti. A Firenze si sta lavorando bene. Credo che la collaborazione si concretizzerà in questo».
La scelta delle sue competenze per l’assessorato alla cultura è un modo per sprovincializzare Varese: anche lei cercherà di sprovincializzare la cultura?
«Sprovincializzare significa aprirsi al mondo, ma orgogliosi di tener conto anche di quel che si ha».
Il suo ultimo libro «Abecedario» (Skirà) è dedicato a «Come proteggere e valorizzare il patrimonio culturale italiano»: contiene una ricetta valida anche per Varese?
«Quel libro si propone di far chiarezza sulla questione dei beni culturali in Italia. È il tentativo di fare una diagnosi e di dare una terapia. Lo scopo è quello di non sbagliare la cura, perché allora sarebbe inutile fare delle riforme. E quindi, certamente, la mia azione non potrà che essere improntata su quelle convinzioni».
Il sistema museale varesino ha sempre escluso Villa Panza, proprietà del Fai che negli ultimi anni ha ospitato le mostre più belle di Varese, capaci di richiamare visitatori da tutta Italia. Lei è membro del consiglio di amministrazione del Fai: da assessore interverrà a favore di una politica culturale unisona per la città?
«Certo. È una realtà troppo importante per non essere coinvolta nella vita della città con sistematicità e consapevolezza. Ricordo di aver visitato Villa Panza appena fu allestita e l’amore con cui Panza di Biumo parlava delle sue scoperte».
I Musei civici di Villa Mirabello e il Castello di Masnago: molti varesini li conoscono poco o per niente, e comunque non li frequentano. Come pensa di renderli più appetibili?
«Dedicheremo molto tempo a capire il sistema dei flussi turistici e a progettare il modo di ampliarli, raccontando i luoghi».
La cultura è anche spettacolo: conosce l’annosa questione teatrale varesina? È favorevole al progetto del nuovo teatro in piazza Repubblica, al posto della Caserma che però è tutelata proprio dalla Sovrintendenza ai beni culturali di cui lei è stato responsabile e perciò (anche per intervento di Vittorio Sgarbi) non può essere abbattuta?
«Non conosco la questione in dettaglio. So che, trattandosi di un bene culturale di proprietà pubblica, automaticamente è tutelato dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Su questi beni scatta una riserva di culturalità indipendentemente dal fatto che ci sia un vincolo dichiarato o meno. Bisognerà vedere nello specifico».
Il suo assessorato comprende la promozione del turismo: qual è la sua idea di massima? Se ne occuperà personalmente o delegherà un esperto?
«Me ne occuperò personalmente insieme a chi dell’amministrazione si occupa di questo. Se ci vorranno degli esperti lo vedremo. Prima va verificata la dimensione del lavoro che ci aspetta».
Lei è stato anche presidente della giuria dei letterati al Premio Campiello nel 2011: a Varese abbiamo il Premio Chiara, che a dir la verità è stato sinora sotto la parrocchia della Provincia. Lo conosce? Lo valorizzerà?
«I premi possono apparire riti un po’ stantii. Il retaggio di un tempo che non c’è più. Ma vedo che se li si rivitalizza attualizzandoli sono uno stimolo importante per la collettività».
Lei è Cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica italiana dal 1995, Ufficiale dal 2000 e Grande Ufficiale dal 2003: come vive tutte queste onorificenze? Una bella responsabilità…
«Anche queste cose possono apparire anticaglia. Ma talvolta danno il senso del lavoro che si fa. L’emozione più grande, però, è stata la Legion d’Onore».
Ci consenta di conoscerla meglio attraverso le sue scelte culturali personali: il libro, il film e il disco della sua vita?
«Il libro, Il principio di ragione di Martin Heidegger, il film, Un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Petri, il disco, May Sharona dei The Knack».
Il suo primo «gesto culturale» varesino quale sarà?
«Capire lo stato dell’arte delle questioni aperte e cominciare a progettare il futuro».
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