LIDIA MACCHI
Così la Prealpina fece ripartire le indagini
Fra le prove del processo la copia del 15 maggio 2015 con la lettera anonima “In morte di un’amica”
C’è anche “La Prealpina” tra le prove prodotte dal sostituto procuratore generale di Milano Gemma Gualdi e ammesse dalla Corte d’Assise di Varese al termine della prima udienza del processo a carico di Stefano Binda, imputato per l’omicidio di Lidia Macchi. La prova in questione consiste nella riproduzione della prima pagina e di un paio di articoli a pagina 14 della stessa edizione corredati da una foto di Lidia e, soprattutto, da una riproduzione della «missiva anonima» “In morte di un’amica”.
Una riproduzione, abbinata a un articolo in cui si informava che era stato isolata una traccia di Dna maschile sulla linguetta della busta della lettera inviata alla famiglia Macchi e ricevuta il giorno del funerale di Lidia (ma che il profilo genetico non corrispondeva a quello dell’indagato dell’epoca, Giuseppe Piccolomo, ndr), ritenuta fondamentale dagli inquirenti e, in primis, dall’allora sostituto pg Carmen Manfredda, il magistrato responsabile dell’avocazione del fascicolo e titolare delle indagini fino all’ottenimento del rinvio a giudizio. Già, perché la diffusione dell’anonimo sul nostro giornale ha contribuito alla svolta nelle indagini. Indagini che hanno portato all’attuale imputazione del 49enne di Brebbia. Di fronte alla riproduzione dell’anonimo, un’amica di vecchia data dell’uomo ora accusato del delitto del Sass Pinì, Patrizia Bianchi, riconobbe come «familiare» la grafia in stampatello del testo. Così, riprese tra le mani le quattro cartoline che le aveva scritto in quegli anni il ragazzo di cui si era invaghita e che frequentava come lei il giro di Comunione Liberazione a Varese e, con sorpresa, notò «una grande somiglianza della grafia». Morale: la donna contattò immediatamente la Squadra Mobile di Varese, alla quale consegnò le cartoline ricevute da Binda, in seguito oggetto di comparazione da parte del consulente tecnico della Procura Generale, Susanna Contessini, secondo la quale non ci sarebbero dubbi sull’attribuibilità all’imputato dello scritto anonimo (la scrittura fu anche riconosciuta dalla sorella “intercettata” a sua insaputa il giorno stesso dell’arresto di Binda, ndr), «una ricerca disperata di un perdono impossibile» per dirla con il criminologo varesino Franco Posa, consulente tecnico della Procura Generale. Una consulenza tecnica grafologica, va detto, contrastata da una di segno opposto prodotta dalla difesa di Binda e che ora sarebbe messa ulteriormente in dubbio dalle dichiarazioni dell’avvocato bresciano Piergiorgio Vittorini, che ha fatto sapere alla Corte d’Assise di Varese che un suo cliente si sarebbe attribuito la paternità dello scritto (ma difficilmente ne rivelerà il nome, poiché si avvarrà del segreto professionale, ndr).
A proposito di Patrizia Bianchi, la pubblica accusa ha chiesto e ottenuto l’ammissione come prova anche di tutta una serie di appunti della donna relativi alla sua amicizia e alle frequentazioni con Stefano Binda - a cominciare dal cosiddetto “Sillogismo”, un dialogo in cui si dice che Binda le avrebbe confidato «Tu non sai, non puoi nemmeno immaginare cosa sono stato capace di fare» e che, per quella “cosa”, un prete avrebbe ricevuto la confessione dell’attuale imputato -, e anche una serie di foto volte a dimostrare le «similitudini fisiognomiche» tra la stessa Patrizia e Lidia.
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