I RICORDI
Dario, Franca e un fiore
La coppia Fo-Rame vista dall’amica di Varese: una testimone speciale apre il suo diario ai nostri lettori
Franca Rame di Dario Fo diceva: «È un monumento, tutti i monumenti hanno un piedistallo ed io è 50 anni che sto così, piegata, a far da piedistallo». Ebbene: io ho avuto la fortuna di conoscere personalmente il “monumento”, anzi i monumenti. Entrambi grandissimi, erano persone speciali, eppure mai ti facevano sentire piccola. Erano due amici affettuosi, attenti e sensibili.
Per raccontare questo legame privilegiato procederò per frammenti, senza un ordine particolare. Parlare di Franca e Dario mi commuove e mi emoziona così profondamente che la memoria non riesce a lavorare come vorrei.
Ricordo Dario, sulla soglia del suo appartamento di Milano, con le braccia aperte pronte a stringerti in uno dei suoi forti abbracci. Franca già era venuta a mancare e lui mi presentava ai tanti collaboratori che popolavano la casa come «una grandissima amica di Franca, la Elena-di-Varese» (lo pronunciava così il mio nome, tutto attaccato, sempre). Poi mi prendeva per mano e diceva “Sto lavorando, vieni con me, così vedi cosa faccio.” Poteva essere la dettatura a braccio del paragrafo di un libro, la visione di uno spettacolo da “aggiustare” in alcune parti o la creazione di un dipinto. Dario era instancabile, ti affascinava e ti coinvolgeva, stupendoti quando, con un candore disarmante, ti chiedeva conferma del suo lavoro.
L’umiltà era, a parer mio, una delle sue più grandi doti. «Cosa ne pensi? Ti piace?» domandava riferendosi a un quadro appena terminato. E io cosa potevo mai rispondere? Lui spezzava il mio silenzio dicendo: «Sono davvero fortunato. Ho avuto tanti doni dalla vita, anche quello della pittura». Non si lodava mai, Dario, e ascoltava con attenzione tutti. «Ma sai che forse hai ragione tu?». Ed imbarazzata, mentre lo aiutavo a correggere le bozze della sua autobiografia, china sulla pagina, mi dicevo: «È un premio Nobel e sta ascoltando proprio me!».
Io che, bambina, ho il ricordo di quest’uomo vestito di nero, con un enorme microfono al collo, che parlava in un modo allora per me incomprensibile. Ho visto e capito più tardi, assistendo alle prove di alcuni spettacoli, come nasceva quel grammelot che lo ha reso famoso nel mondo. Ho imparato a conoscere un teatro che rompeva la “quarta parete” e ti faceva sentire protagonista. Ho compreso a fondo quella frase di Cervantes “Quattro panche, due attori, una passione … ecco fatto il Teatro”. Sì, perché a Dario (come a Franca) non servivano scenografie. Dario riempiva la scena da solo, con quel suo sorriso furbo e irriverente, con quella gestualità, magica, che in pochi minuti ti faceva vedere una folla urlante, poi un angelo nel cielo, e ancora un bambino impertinente che regala i primi miracoli ai suoi coetanei. Ho conosciuto un uomo gentile, che ringraziava con tenerezza la negoziante sotto casa, quando Franca lo mandava a fare una piccola spesa. Un uomo che sapeva essere grato di ogni piccolo dono della vita. «Guarda che meraviglia questa pèsca» commentava osservando un albero nella casa estiva di Cesenatico.
Un uomo impegnato e serio, fiero di sfilare con la sua Franca per le strade di una Milano grigia, con gli arazzi da lui dipinti insieme agli studenti di Brera, per ricordare le vittime di tutte le stragi impunite, trent’anni dopo quella di Piazza Fontana. Lui che aveva difeso e onorato Giuseppe Pinelli, con quel “Morte accidentale di un anarchico” rappresentato in tutto il mondo, perché «ahimè – commentava amaro - ogni Paese ha il suo Pinelli». I suoi testi erano e sono rappresentati quotidianamente da centinaia di compagnie straniere. Ridendoci sopra, Dario diceva di essere lo scrittore vivente più rappresentato al mondo. Eppure, nonostante fosse un premio Nobel, sorprendeva sempre per la gioia che dimostrava condividendo i piccoli successi nella vita dei suoi amici. «Applausi scroscianti!», mi sentii dire, quando al telefono gli comunicai che mi ero laureata.
L’ultimo e più dolce ricordo che ho risale al dicembre del 2015. Eravamo su un taxi, di ritorno da una breve registrazione in Rai. Gli confidai che da un anno avevo un compagno che finalmente mi rendeva felice e serena, nonostante i problemi di salute che non mi davano pace, di cui lui era a conoscenza. E gli spiegai che alcune amiche, sornione, mi facevano notare: «Quest’uomo te l’ha mandato Franca, è un dono “della” Franca!». Sorrise, beffardo e commosso: «Può essere, sai? - disse - Franca è capace di cose simili». E poco dopo nel giardino della sua casa in Porta Romana mi mostrò emozionato un bocciolo di fiore fuori stagione. «Questa è una pianta di Franca, guarda che strano quel fiore così vivo in questo gelo. Per me è un suo messaggio, non credi?»
Ci credo, Dario, ci credo.
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