L’INTERVISTA
Javorcic, tu chiamale se vuoi...
Il mister della Pro Patria a tutto tondo: «Sono stato conquistato dal club e dall’ambiente. Che cosa migliorare? Con più gol saremmo una squadra perfetta»
Chi lo conosce lo ama, chi lo ha conosciuto lo stima per il suo stile, la sua cultura, la profondità del suo pensiero, non solo calcistico. Ivan Javorcic, 38 anni appena per un allenatore, felicissimo marito di Dragana e orgoglioso papà di Alessia, ha conquistato la Pro Patria oltre i risultati. Ascoltate la risposta, quando gli si dice che uno dei suoi meriti (da dividere con società e giocatori) è di aver riacceso l’amore dei tifosi, e avrete un’idea del personaggio: «Provo gioia, soddisfazione, quando leggo nei loro occhi e negli occhi di quelli che amano la Pro, la commozione per un successo. Il mio – anzi il nostro – è un lavoro che deve dispensare emozioni. Quando ci riusciamo vado a casa contento. Il mio obiettivo è anche questo».
Un uomo tutto d’un pezzo che scava nella storia del calcio per aggiornarsi ed essere pronto alle grandi sfide. E la sua storia calcistica personale mette i brividi: nella lista dei 35 che poteva aspirare al Mondiale 1998 con la sua Croazia come debutto. Qualche nome di quei probabili partenti per la Francia? Boban, Jarni, Suker, Prosinecki…
Non è andato a quella rassegna iridata ma è stato capitano della Under 21 del suo Paese. Giovanissimo arriva in serie A, al Brescia ma…
«Ma la fortuna è una componente della nostra carriera. Per giocare in serie A bisogna stare bene e io, purtroppo, sempre bene non sono stato. Gli infortuni sono stati tanti, troppi e a un certo punto ho capito che guarire non sarebbe stato possibile. E ho smesso».
E allora dal campo alla panchina: qual è la molla che scatta in un uomo che da giocatore diventa allenatore?
«Forse mi ha aiutato la mia esperienza da capitano, in qualche modo mi ha dato la possibilità di mettere in pratica quelle esperienze che avevo affinato».
Certo è che con quel passato dover ricominciare dalla serie D…
«Mi sono sentito un po’ come Cristoforo Colombo alla scoperta non solo di un calcio diverso ma di un mondo completamente sconosciuto».
E, se ovviamente si passa il paragone, chi sono stati coloro che hanno permesso questa scoperta?
«Ho parlato con Turotti, con il direttore generale di allora (Asmini, ndr) e con la presidentessa Patrizia Testa. Dire che è stato un colpo di fulmine con l’ambiente è esagerato ma si avvicina molto all’inizio di questa magnifica storia. Può essere stato un segno del destino? Forse sì ma certo è stata una scelta azzeccata».
Qual è il segreto con il quale è entrato in empatia con i suoi giocatori e con l’ambiente?
«Per cultura, per educazione e per il mio modo di pensare metto al centro del mio ragionamento le persone. Per cui agisco di conseguenza con i miei ragazzi e con tutti quelli che incrocio».
Fine anno, tempo di bilanci: il vostro, al termine del girone d’andata, è positivo ma se dovesse trovare il pelo nell’uovo dove punterebbe?
«Penso che la classifica sia sempre lo specchio fedele della realtà. Diamo merito a questi ragazzi di avere onorato la maglia, senza mai tirarsi indietro. Però tutte le cose sono migliorabili e mi piacerebbe aggiungere alla nostra indubbia solidità difensiva anche l’efficacia in attacco. Trovato questo equilibrio saremmo praticamente perfetti».
Il calendario malandrino non consente distrazioni: prossima tappa quel ramo del Lago di Como…
«Il Lecco ha una storia e una città dietro di sé. Dopo la sconfitta contro di noi si è rialzato e ora mira in alto, molto in alto. Sarà una gara tosta da preparare con grande attenzione».
Dal Lecco al Rezzato subito dopo.
«Un passo per volta. Per ora pensiamo al Lecco e non è poco».
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