VENEZIA
La favola della Biennale con occhi di bambino
Non ci si abitua mai. Il tuffo al cuore arriva sempre un passo fuori la stazione. Venezia va accolta con il candore di un fanciullo e se il luogo verso cui ci si muove è l’Arsenale, alla volta della 57esima Biennale d’Arte, meglio evitare la Riva degli Schiavoni e il Canal Grande, dove le folle vanno a vedere «Support», le mani giganti di Lorenzo Quinn che spuntano dall’acqua per sostenere Ca Sagredo. Meglio procedere per squeri, calli, callette, sottoporteghi e campielli senza ausili mappe digitali o cartacee, in caso interrompendo il passo deciso di signore veneziane chiedendo la giusta direzione. E di nuovo incerti fermarsi in un bacaro non disdegnando, se pur di mattina, un prosecco accompagnato da qualche fetta di soppressa su pane croccante quale buon viatico al proseguo della giornata, sino a sentirsi dire da un anziano del posto con cordiale, ironico sorriso, che Venezia è fragile, bisogna percorrerla con delicatezza.
«Viva Arte Viva» afferma la grande scritta all’ingresso dell’Arsenale della 57esima Biennale a cura della francese Christine Macel, strutturata in nove capitoli, con la presenza di 51 paesi, la partecipazione di 120 artisti, con padiglioni dedicati alla terra, agli sciamani, ai colori e agli aspetti dionisiaci della vita.
Al di là dei pareri favorevoli o discordanti degli addetti ai lavori, che sono il sale di ogni edizione, l’esposizione andrebbe vissuta di nuovo con cuore di fanciullo pronto a vivere momenti di gioia, perplessità, straniamento, entusiasmo di fronte al doveroso quanto tardivo omaggio a Maria Lai (Ulassai 1919-Cardedu 2013), alla sua idea di universalità mai disgiunta dall’amore per la sua terra.
Qualche passo dopo, le raffinate trame di colore unite a cabalistiche numerazioni eseguite su tela grezza del maestro Giorgio Griffa (Torino 1936) suggeriscono inafferrabili lievità spaziali.
Il dubbio d’essere calati in una fiaba lo induce la grande scultura a forma di torta della brasiliana Erika Verzutti (1971) e liberi dal «don’t touch» di turno, ci accingiamo, come dovrebbe essere per ogni opera tridimensionale, alla tattilità, peccato per i desideri di gola: ferro, bronzo, polistirolo, ceramica, vernice a olio strutturano l’intero lavoro.
E se lo sguardo è il primo senso indagatore, all’istante si perde nelle minimali successioni cromatiche del cinese Hao Liang (Chengdu 1983), misurata fusione tra pittura tradizionale e moderna tecnica espressiva.
E se fiaba deve essere, lo sia fino in fondo. A condurci per mano verso il «Mondo magico», titolo che fa riferimento all’omonimo libro dell’antropologo napoletano Ernesto De Martino (1908-9165), è Cecilia Alemani, curatrice del Padiglione Italia: la studiosa d’arte di origini milanesi (1977) vive e lavora a New York con il marito Massimiliano Gioni, che è nato a Busto Arsizio, fa il suo stesso lavoro ed è stato il curatore della Biennale nel 2013. Per il Padiglione Italia Alemani ha scelto artisti dai molteplici riferimenti fantastici e favolistici. Se Andreatta Calò evoca mondi marini, misteriosi e oscuri, Roberto Cuoghi indaga le possibili proprietà trasformative di corpi e materiali, mentre Adelina Husni-Bet affronta questioni attuali come le differenze tra razze, classi sociali e conseguenti modelli educativi.
Il tragitto che va dall’Arsenale fino ai Giardini impone una sosta al monumento alla Partigiana, realizzato da Augusto Murer nel 1961, opera in bronzo dove è raffigurato il corpo di una donna adagiato a fior d’acqua, in memoria di tutte le donne perite durante la lotta di liberazione.
Di nuovo un’altra doverosa consacrazione nel Padiglione della Gran Bretagna alla settantaduenne Phyllida Barlow e alle sue monumentali e coraggiose installazioni realizzate con materiali riciclati.
Si continua al femminile con le tormentate sculture in bronzo e ferro della svizzera Carol Bove, nata a Ginevra nel 1971: le sue sono opere senza tregua, forti e aspre.
Lieve e ironica la cinese Liu Ye(Beijing 1964) presenta una rielaborazione di libri di grandi autori stranieri segretamente custoditi dai genitori durante la Rivoluzione Culturale.
Con ideale balzo geografico verso l’Asia orientale troviamo l’intervento, nel Padiglione Giapponese, di Takahiro Iwasaki (Hiroshima 1975) atto a proporre analogie tra la città lagunare e il santuario scintoista di Itsukushima costruito su palafitte che sorgono dal mare.
La quiete delle corderie riverberata dai flussi minimi delle acque divise in due parti da austeri colonnati, rischia di fare perdere l’appuntamento con il traghetto verso le Tese, baluardo ultimo della Biennale, dove il maestoso impianto scenico musicale messo in atto dall’artista compositore franco libanese Zad Moultaka (Wadi Chahrour 1967) mette in atto una fusione sonora tra linguaggio corrente e cadenze musicali occidentali e arabe, contornate da filari luminescenti sino alla comparsa finale di un gigantesco totem sede di speranze, affanni, timori e utopie.
«Viva Arte Viva», appare come un cadenzato battimani, di cui forse nel tempo non rimarrà che un distratto ricordo, dopo i mondi enciclopedici di Massimiliano Gioni e gli irreali labirinti di Okwui Enwezor, ma che tutto sommato vale la pena condividere poiché come affermava Bruno Bettelheim nel «Mondo incantato», «Ogni fiaba possiede una struttura coerente con un preciso inizio e una trama che tende verso una soddisfacente soluzione, raggiunta nel finale».
«Viva Arte Viva», 57esima Esposizione internazionale d’arte Biennale di Venezia - A Venezia, Arsenale e Giardini, fino al 26 novembre da martedì a domenica ore 10-18, ingresso 25 euro, ridotti 22 euro.
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