IL MITO
La Varese di Morse
«Purtroppo ora i giocatori non mettono radici in città»
Bob Morse e Varese, una storia infinita. Lo straniero più amato negli oltre 70 anni della società di piazza Monte Grappa ha ricevuto l’abbraccio speciale dei tifosi de “Il Basket Siamo Noi” nell’ambito dell’ormai consueta visita annuale nella città che ha segnato la sua vita.
«Ogni ritorno a Varese è sempre speciale: per me è come tornare a casa, la gente mi riconosce ancora, si dice che la mia Ignis sia stata la squadra leggenda e sono fiero di averne fatto parte. E poi l’Italia e la vostra lingua sono diventate una parte fondamentale della mia vita: l’ho insegnata per 9 anni all’università, ancora oggi tengo corsi per due ore alla settimana per tenermi in allenamento».
Mercoledì ha fatto visita alla squadra di Caja al PalA2A, segue ancora le vicende della serie A italiana?
«Non sono aggiornatissimo sul presente di Varese, ma è evidente che i tempi sono molto cambiati, soprattutto nel modo di costruire le squadre con le novità regolamentari portate dalla legge Bosman e l’apertura delle frontiere. Ci sono tantissimi stranieri, ho sentito che l’allenamento viene condotto in inglese, e non c’è più lo stimolo ad imparare l’italiano. Rispetto a quando giocavo io il mercato quasi libero dà la possibilità di cambiare i giocatori con grande facilità. Questo ha pro e contro: si può migliorare la squadra a stagione in corso, però chi viene qui non mette radici come sono riuscito a fare io nei miei 9 anni in città».
Domenica si giocherà il derby tra Milano e Varese: rispetto agli anni di Morse c’è tutt’altro clima...
«Oggi i valori sono totalmente diversi rispetto ai miei tempi, tutti mi dicono che Milano è la grande favorita. Allora il derby decideva la stagione, sin dal mio primo anno a Varese: Nikolic mi scelse per rimpiazzare Raga perché ero più adatto a giocare contro i 3 lunghi di Milano Bariviera, Masini e Kenney. Quell’anno giocammo contro 7 volte tra tornei, campionato, Coppa dei Campioni e lo spareggio di Roma: perdemmo solo una volta su sette al PalaLido in campionato, e la sfida per lo scudetto, con Meneghin condizionato dal naso rotto, fu il culmine di quell’annata. Il pronostico era alla pari, il mio canestro decisivo ci portò al titolo».
Da ieri però lei è socio onorario del Trust, motivo per tornare a seguire i colori biancorossi...
«È una bellissima iniziativa che mi ricorda il vecchio Basket Club. Sono onorato di questo riconoscimento; una volta si organizzavano treni speciali per le grandi finali come a Ginevra o a Roma, vedere che ancora oggi c’è questa passione è una cosa che mi riempie d’orgoglio perché credo di averla alimentata in qualche modo».
Quali tappe del suo pellegrinaggio varesino le hanno lasciato il ricordo più forte?
«Mi ha fatto molto piacere salutare Augusto Ossola insieme a Sandro Galleani: lui rappresenta la storia di questa società, e credo che questa visita abbia fatto bene a lui come ne ha fatto a me. Oggi invece incontrerò gli Under 18 di Dodo Rusconi: non è facile spiegare a parole come si diventa campioni, mi fa molto piacere comunque essere considerato ancora un modello e un esempio e proverò a trasmettere ai giovani il mio vissuto».
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