L’INCHIESTA SI ALLARGA
Morti in corsia, ecco i nomi
Resa nota l’identità dei cinque pazienti che sarebbero stati uccisi da Cazzaniga
«A questo punto mi aspetto chiarezza. Se davvero mia madre è morta per queste ragioni, Leonardo Cazzaniga deve essere condannato, perché forse mia mamma oggi potrebbe essere qua ancora con noi, ma si sa come vanno le cose in Italia»: sono le parole di Andrea Duranti, il figlio di Virginia Moneta. Una novantunenne che secondo l’accusa sarebbe morta per mano dell’ex vice primario dell’ospedale di Saronno e del suo protocollo letale. Oltre alla pensionata, la procura di Busto Arsizio ha individuato decessi sospetti nelle cartelle cliniche di Mario Volontè, Giacomo Borghi, Antonietta Balzarotti e Pier Francesco Ferrazzi. Sono loro i cinque nuovi casi casi del secondo filone dell’operazione Angeli e Demoni e si aggiungono a quello del suocero di Laura Taroni, Luciano Guerra, e della madre dell’ex infermiera killer, Maria Rita Clerici. Non sono solo nomi, ci sono storie dietro queste cartelle cliniche, ci sono le sofferenze e le angosce dei parenti e di chi si era affidato con speranza alle cure ospedaliere.
«Mia madre non stava bene, era malata ma non si pensava che potesse morire. Una mattina le sue condizioni peggiorarono e così chiamai l’ambulanza. Rimanemmo in pronto soccorso mezz’ora, mezz’ora in cui la mamma faceva sempre più fatica a respirare. Poi all’improvviso morì».
Era marzo del 2013, Duranti certo non pensò che dietro la disgrazia potesse esserci l’intervento dell’uomo. Glielo hanno rivelato i carabinieri, coordinati dal pubblico ministero Maria Cristina Ria, due settimane fa durante la seconda tranche di indagini sulle morti in corsia - di cui risponde solo Cazzaniga - e quelle “familiari” di cui è accusata la coppia diabolica.
«Mai avremmo immaginato una cosa del genere, certe cose sembrano da film, storie che vedi da lontano, ma quando ti toccano è tutto diverso», osserva Maria Angela Borghi, nipote dell’ottantottenne Giacomo, spirato pure lui dopo essere stato trattato da Cazzaniga. «È sempre vissuto con noi, solo ultimamente era in una casa di riposo perché aveva una situazione clinica compromessa. Ma era cosciente».
Nell’inverno del 2011 i parenti di Giacomo Borghi vennero avvisati di un aggravamento delle sue condizioni e della necessità di trasportarlo in ospedale. Così in ambulanza arrivò al pronto soccorso di Saronno. «Noi arrivammo prima e lo vedemmo con la mascherina. Lo portarono dentro in pronto soccorso e dopo poco uscì Cazzaniga, molto gentile - alcuni anni prima aveva già avuto in cura lo zio ed era andato tutto bene, ndr - dicendo che non l’avrebbe portato in reparto perché era ormai troppo grave. La mascherina non l’aveva più, e ci dissero di chiamare un prete se lo ritenevamo, perché ormai non c’era più niente da fare». E infatti dall’ospedale l’ottantottenne uscì in una bara. Neppure in questo caso i nipoti vennero colti dal sospetto che potesse esserci stato lo zampino di un medico dietro l’ultimo respiro dello zio. Certo, chiunque avesse avuto a che fare con Cazzaniga si è chiesto nei mesi scorsi se i lutti improvvisi fossero da ricollegare al protocollo finito sul banco degli imputati. La risposta è arrivata nelle scorse settimane, quando la procura di Busto Arsizio ha chiuso le indagini. In aula, per il filone che riguarda i primi quattro pazienti e il marito dell’infermiera Massimo Guerra, si torna a gennaio.
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