LIDIA MACCHI
«Non mi sento colpevole»
In aula l’ex gip D’Agostino: «Ho fatto distruggere i vetrini, ma sulla lista c’erano solo numeri. Quando seppi dell’errore mi vennero i capelli dritti»
«Sì, ho disposto io la distruzione dei reperti legati all’indagine sull’omicidio di Lidia Macchi, ma non mi sento colpevole: nell’elenco dei corpi di reato da eliminare c’erano solo numeri e io non potevo sapere a memoria tutti i numeri dei procedimenti del tribunale di Varese».
Al processo a Stefano Binda per il delitto del 1987 davanti alla Corte d’Assise di Varese (presidente Orazio Muscato, a latere Cristina Marzagalli) è il giorno di Ottavio D’Agostino, per molto tempo giudice delle indagini preliminari in piazza Cacciatori delle Alpi e in pensione da un paio d’anni. Chiamato a deporre, come primo teste della parte civile (la famiglia Macchi, rappresentata dall’avvocato Daniele Pizzi), D’Agostino ha ripercorso la vicenda della distruzione dei vetrini che contenevano il liquido seminale dell’assassino (forse in quantità minimale) ma anche svelato alcuni retroscena dell’indagine decennale del pm Agostino Abate sull’omicidio, mai arrivata a conclusione: «Sapevo che Abate aveva nel suo ufficio un armadio blindato che conteneva reperti del caso Macchi - ha detto l’ex gip - e tra questi c’era un capello biondo trovato sulla macchina: nel corso degli anni più volte l’ho sollecitato a fare l’analisi del DNA su quel capello, ma non mi ha mai dato retta. Per aver trattato male un prete nel corso delle indagini era finito sotto inchiesta a Torino e per questo vedeva il caso Macchi come il fumo negli occhi».
Tornando alla questione della distruzione dei vetrini, D’Agostino ha sostanzialmente addossato la colpa di quello che accadde al responsabile dell’Ufficio corpi di reato Antonino Ciccia: «Nel 2000 venne da me e disse che i locali erano talmente pieni che non ci si poteva muovere e mi disse che avrei dovuto autorizzarlo a distruggere parte del contenuto. Verificai di persona ed era vero: c’erano armi dappertutto, ricordo un barilotto, non si poteva davvero camminare. Così chiesi un elenco, che mi fu presentato e conteneva una descrizione dell’oggetto, come “vetrino” o “fucile”, e accanto non i nomi delle persone implicate ma numeri di registro. Avevo la massima fiducia nel responsabile e autorizzai la distruzione, anche perché mai avrei pensato alla presenza nell’elenco di corpi di reato legati a processi ancora aperti e meno che mai legati al caso Macchi».
D’Agostino non ricorda se avvisò la Procura, che avrebbe potuto opporsi, e scoprì quello che aveva involontariamente combinato quando il foglio tornò indietro, a questo punto con il nome Lidia Macchi accanto a vari reperti: «Mi si rizzarono i capelli in testa, andai da Ciccia e gli feci una partaccia, e poi informai subito Abate, che mai mi rispose».
D’Agostino sostiene che ad aggiungere la parola “Macchi” alla descrizione di alcuni reperti fu Ciccia, ma Ciccia ha già negato e in alcuni casi l’aggiunta non sembra un’aggiunta. Altro “giallo” quello di una presunta «richiesta di rinvio a giudizio di don Antonio Costabile» che Abate avrebbe trasmesso a D’Agostino. Mentre per quanto riguarda la lettera anonima, l’ex gip ha spiegato che per l’allora pm la presenza di «un’ostia» come firma faceva sospettare di nuovo del sacerdote, la cui posizione è stata infine archiviata dalla Procura generale.
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