L’INDAGINE
«Non può aver ucciso così»
Delitto Macchi, la sorella di Binda incredula in un’intercettazione
I giornali hanno «sputtanato» la famiglia Binda - dice fuori dai denti - ma loro «non ne sanno nulla».
È passata poco più di una settimana dall’arresto shock del fratello, accusato dell’omicidio di Lidia Macchi, e Patrizia Binda, intercettata dagli uomini della Squadra Mobile di Varese mentre parla al telefonino con un amico, ancora non si capacita dell’accaduto.
Fra le tante cose, fa intuire di non conoscere più di tanto i «problemi con la droga» avuti dal fratello. Per esempio, sostiene di essere totalmente all’oscuro che il quarantanovenne brebbiese si drogasse da minorenne (si racconta che iniziò a bucarsi a 17 anni, ndr).
Ricorda solo del «problema» avuto nel 2010. Di quella volta, cioè, in cui fu fermato perché trovato alla guida sotto effetto di stupefacenti.
Solo un anno prima, nel 2009, il fratello era stato però identificato a Gorla Maggiore dagli uomini della polizia di Gallarate nell’ambito dell’inchiesta “Burn Cars” coordinata dall’allora pm di Varese Tiziano Masini.
In una delle tante “retate” di spacciatori e consumatori di stupefacenti, ecco spuntare Stefano Binda.
Gli agenti che ne raccolsero la testimonianza, dopo aver appurato che si trattava di un acquirente, evitarono di denunciarlo. E poi ci sono gli anni trascorsi da Stefano in comunità per liberarsi dalla dipendenza dall’eroina.
Articolo sulla Prealpina di giovedì 1 dicembre.
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