L’UDIENZA
Dopo la fuga, la batosta
Direttissima per i due marocchini arrestati al termine del folle inseguimento: un anno e mezzo. Ma su di loro pendono fortissimi inizi di responsabilità per una rapina avvenuta a Milano domenica
Sono comparsi mercoledì mattina davanti al giudice i due marocchini arrestati dalla polizia lunedì dopo un inseguimento folle e due colpi di pistola sparati in aria: credevano pure di essersela cavata con poco, visto che il tribunale li ha condannati a un anno e sei mesi con rito abbreviato e rimessi in libertà con il solo obbligo di firma. Ma l’euforia è durata davvero poco, perché in aula ad attenderli c’erano anche i carabinieri della compagnia Duomo di Milano con in mano il fermo emesso per rapina commessa domenica scorsa nel capoluogo.
E dunque sono passati dalla cella di sicurezza al carcere dove a questo punto si soffermeranno per un po’. Nel corso del processo per direttissima i due hanno cercato di difendersi accampando scuse goffe. Dovevano rispondere soprattutto a una domanda, per quanto retorica: qual era il motivo di una fuga così rocambolesca e pericolosa?
Gli imputati, lungi dall’ammettere di essere gli autori della brutale rapina in zona Loreto, hanno raccontato di avere fumato crack e di essere andati nel panico davanti alla polizia.
Ma allora, ha domandato il giudice Giulia Messina, la Daihatsu Cuore sulla quale hanno percorso via 20 Settembre in contromano di chi era? «Di un nostro amico, ce l’ha prestata».
E i gioielli trovati all’interno dell’abitacolo, denunciati dal cinquantunenne milanese che domenica era stato legato col nastro isolante? «No, no, è tutta roba nostra». E cosa ci facevano lunedì mattina vicino alle scuole Tommaseo? «Dovevamo andare a Novara da un nostro amico ma eravamo senza benzina».
Insomma, tutte spiegazioni inconsistenti, decisamente non collaborative. Il pubblico ministero d’udienza Dorotea Sanna ha chiesto la pena di un anno e sei mesi e il giudice l’ha accolta in pieno. In accordo con il pubblico ministero titolare del fascicolo Nicola Rossato ha chiesto anche la misura cautelare in carcere, considerando i forti indizi che gli inquirenti avevano in ordine alla rapina di Milano. Ma il reato in contestazione era solo la resistenza a pubblico ufficiale e quindi non è stato possibile decidere altrimenti.
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