IL CONCERTO
Steve Hackett, non è un rock per vecchi
Età media elevata, ma entusiasmo da teenager per la tappa legnanese del chitarrista ex Genesis: sala stracolma e entusiasmo alle stelle
Era esaurito da settimane, lo show di mister Steve Hackett & band al teatro Galleria. Si respirava un’aria di attesa palpabile, intorno a piazza San Magno, prima del via allo show del sessantasettenne chitarrista inglese, noto soprattutto per la sua presenza nei “migliori” Genesis (1970-77), ma da quarant’anni apprezzato interprete solista.
Teatro strapieno, età media altissima, pubblico in stragrande maggioranza maschile (ma non mancavano donne - stimate nel 20% circa sul totale - e qualcuno giura addirittura di avere visto un paio di ragazze sui vent’anni): eppure, quando le luci si sono spente e, alle 21.10, la band è apparsa sul palco, per tutti si è creata una sorta di rottura spazio-temporale che ha riportato il calendario indietro di almeno 40 anni. Anziani stampellati e imbolsiti sono improvvisamente rientrati nei panni degli adolescenti che nei favolosi anni settanta sbavavano davanti alle vetrine di negozi di dischi e sognavano di incontrare Peter Gabriel, Ritchie Blackmore o Robert Fripp (no, lui no, proprio impossibile).
Al centro del palco lui, un anziano signore che, a sua volta, sembra avere vinto una sorta di premio “Dorian Gray”: certo, il colore dei capelli è forse autentico «come una banconota da 3 euro», ma la forma fisica e chitarristica sono del tutto immutate.
Intorno a lui una band che recita il naturale ruolo di spalla ma che lo fa in maniera assolutamente egregia: dal batterista Gary O’Toole al tastierista Roger King, il polistrumentista (fiati, percussioni e tastiere) Rob Townsend e l’applauditissimo Nick Beggs, bassista di grande personalità la cui fama va ben oltre i rigidi paletti del progressive (a cominciare dall’esordio con i Kajagoogoo, sì proprio quelli di “Too Shy”).
Steve, che dalle nostre parti torna spesso e volentieri (dopo la data di sabato 1 a Roma, già fissati a furor di popolo altri tre show a luglio), si rivolge al pubblico con qualche frase in discreto italiano: «Grazie mille, buona sera, sono molto contento di essere qui». E, quando proprio non ce la fa, il suo inglese risulta sempre chiaro e intelligibile.
Il concerto è praticamente diviso in due: la prima parte è completamente dedicata alla carriera solista di Hackett, da alcuni pezzi storici (come “Steppes”, del 1980) agli immancabili estratti dal nuovissimo “The night Siren”, che dal vivo hanno sicuramente una loro dignità grazie a impasti sonori che rievocano pezzi di storia, con la Gibson Les Paul di Steve a dirigere il “coro”.
Dopo circa un’ora è la volta di gettarsi nella fase “Genesis Revisited”, in particolare con la celebrazione dei quarant’anni di Wind and Wuthering, l’ultimo album con la presenza di Hackett e della sua chitarra. In questa seconda parte di show appare sul palco l’istrionico vocalist Nad Sylvan, un efebo di quasi sessant’anni con i lunghi boccoli biondi e il fisico da trampoliere. Sulla prestazione del cantante, alle prese con le parti vocali originariamente affidate a Phil Collins (ma anche a Peter Gabriel, come si vedrà) i pareri divergono: personalità da vendere, presenza scenica notevole, quanto alla voce qualcuno storce il naso, anche se in corso d’opera le cose sono decisamente migliorate. Anche lui promosso, alla fine. E la scaletta? Tanto Wind and Wuthering (c’è addirittura una rara “Inside and out” che all’epoca fu, forse ingiustamente, esclusa dall’album per essere ripescata solo su un successivo EP), un paio di pezzi dal precedente A trick of the tail (1976) e il momento "acustico", con le mani che scorrono precise e velocissime sulle sei corde a regalare la magia di Horizon (da Foxtrot, 1972) e la splendida intro di "Blood on the Rooftops" (Wind & Wuthering). Sono passate due ore ed è il momento del “colpo al cuore” definitivo per gli attempati fan: un tuffo nell’era Gabriel con le pietre miliari Firth of Fifth (1973) e The musical box (1971). E qui anche i più cagionevoli dimenticano il tempo, l’età e gli affanni e si agitano sulle sedie (qualcuno addirittura si alza!) durante la struggente cavalcata finale della chitarra al grido di «Why don’t you touch me, touch me, now, now, now, now, now...». Emozioni che si possono tagliare con un coltello, lacrimucce, nostalgia di un passato che non c’è più ma che, in fondo, c’è ancora eccome.
Poi il saluto ma, come è ovvio, è tutto finto: la band rientra e i bis regalano dieci minuti di strumentali genesisiani per chiudere davvero (e non poteva essere diversamente) con “Los Endos”. Grazie Steve &C per queste quasi due ore e mezza di grande, immortale rock. E soprattutto per quella magia spazio-temporale.
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