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Sulle tavole più «in»? Si beve sakè
La cultura gastronomica giapponese è sempre più di moda. Mangiare sushi è diventato come andare a mangiare una pizza. E proprio per questo che si pensa di sapere tutto sulla cultura giapponese masticando sushi, salsa di soia e wasabi. Ma c’è un altro elemento, altrettanto importante nella cultura gastronomica nipponica, che ha già conquistato tanti paesi europei gourmet e sta piacendo molto anche in Italia, è il sakè. Un ingrediente riguardo al quale però esistono ancora tanti punti oscuri o, peggio, dei falsi miti tutti da sfatare. Lorenzo Ferraboschi, sommeriler e sakè educator per la Sakè sommelier association, l’associazione dedicata alla cultura del sakè e al suo buon utilizzo fuori dal Giappone, e fondatore della Sakè Company, ci aiuta a capire meglio cos’è questa bevanda.
Liquore o vino, da pasto o solo alla fine, da consumarsi caldo o freddo? Ci sono tanti luoghi comuni che circolano intorno a questa bevanda giapponese: cos’è il sakè?
«Il termine sakè in giapponese indica il prodotto alcolico in generale, ma quello che noi conosciamo come sakè è in realà il nihonshu parola che indica la bevanda alcolica che si ricava dalla fermentazione di riso e acqua. Il sakè non è altro che un fermentato proprio come il vino e la birra. Ne esistono tantissimi tipi: in Giappone sono 1200 le cantine che lo producono a fronte delle 20mila di vino in Europa. Il 75% del sake è un prodotto da tavola, mentre la parte Premium, ossia l’alto di gamma che si identifica così per alcuni criteri con cui è prodotto, è del 25%. In Italia fino a poco tempo fa si beveva tanto sake da tavola, mentre ora sta iniziando ad arrivare il Premium anche grazie al nostro lavoro e all’interesse del pubblico».
Il sakè si abbina solo alla cucina giapponese oppure si beve anche con i piatti della tradizione italiana?
«Scardiniamo il concetto che il sakè sia perfetto solo con il sushi. Ci sono sakè che con il sushi non vanno bene, altri invece che vanno meglio con la carne, il pesce, altri coi formaggi, i risotti e i prodotti a base di pomodoro. Forse un sommelier storcerà il naso, ma io dico che si abbina meglio del vino che essendo molto tannico in bocca tende ad essere una “prima donna” specialmente se è corposo come un amarone o un barolo. Nel mondo del sakè il suo ruolo è quello di accompagnare le portate senza mai sovrastarne il gusto. E questa sua caratteristica di accompagnamento del cibo è il motivo per cui a volte volte la gente al primo assaggio, senza una guida che li aiuti a capire, può dire che non sa di nulla, perché è abituata ad aspettarsi un sapore più forte. A seconda del piatto si serve un sakè piuttosto che un altro, ma alla fine si comporta sempre nello stesso modo: un po’ schivo all’inizio perché la star in bocca è il cibo e lui è in grado di esaltarlo».
Come va bevuto?
«Storicamente viene bevuto in ciotoline tipo tazzine chiamate ochoko perché il sakè non ha mai avuto una storia legata all’aroma, ma solo al gusto. Questo fino a un centinaio di anni fa circa quando si è iniziato a levigare i chicchi di riso. La levigazione, fatta con delle macchine, porta via la parte esterna del chicco, mentre lascia quello che è il cuore che durante la fermentazione fa esaltare maggiormente gli aromi. Oggi alcuni tipi di sakè serviti ad una certa temperatura sono degustati nel bicchiere da vino bianco la cui pancia esalta gli aromi facendoli arrivare al naso e mischiandoli così al gusto, cogliendone tutte le sfumature. Il sakè caldo dai 30 ai 35 gradi, più alcolico di altri fermentati, va invece servito nell’ochoko: il calore tende a far salire l’aroma intenso. Il sakè rispetto al vino si comporta in modo diverso tra il naso e la bocca: con il vino il naso dà la prima linea di direzione, la bocca lo conferma al 99%, mentre con il sakè all’80 % non lo conferma. Se non si apprezza l’aroma, il sakè non lo senti apprezzando solo alcuni sapori e perdendone altri».
Come per il vino esistono corsi anche per conoscere e apprezzare al massimo il sakè. Lei è anche educatore, chi è il cliente tipo che frequenta i corsi?
«Il target è vario: c’è il ristoratore, non solo di locali asian ma anche tipici italiani, più evoluto che vuole dare un qualcosa in più ai suoi clienti inserendo nel menù abbinamenti con i sakè, i sommelier, i barman che lo utilizzano per i loro cocktail, e poi ci sono gli appassionati o di vino o di cultura giapponese che sono interessati all’utilizzo pratico. I nostri corsi si articolano molto sulla pratica, sul come si assaggia il sakè, a quale temperatura servirlo, in quali bicchieri, come poterlo abbinare a piatti tipici italiani e perché consigliarlo al posto della tradizionale bottiglia di vino».
Per chi ne volesse saperne di più, Sakè sommelier association organizza dall’11 al 13 aprile a Milano una full immersion di introduzione e degustazione di sakè tenuti proprio da Lorenzo Ferraboschi. Per informazioni visitare il sito www.sakesommelierassociation.it.
Serena Minazzi
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