LA SENTENZA
Truffa allo Stato: condannato Riva
Sei anni e tre mesi in appello al numero due dell’Ilva. Danno da 100 milioni di euro
La mattina, di ieri, giovedì 29 giugno, nell’aula della quinta Corte d’Appello di Milano,alla lettura della sentenza nel processo per associazione a delinquere e truffa aggravata a danni dello Stato, c’era anche lui, Fabio Riva, il figlio dell’ex patron dell’Ilva Emilio, la cui fortuna, poi sfociata nel mega gruppo proprietario del colosso siderurgico di Taranto, un tempo orgoglio dell’industria pesante italiana, partì dalle acciaierie di Caronno Pertusella.
Come da indicazione della seconda sezione della Corte di Cassazione, che l’anno scorso ha annullato con rinvio in appello il precedente verdetto, complice la parziale prescrizione di uno dei capi di imputazione, il sessantaduenne Riva, ammesso da qualche tempo ai servizi sociali presso la Fondazione Rava di Milano dopo aver trascorso un paio d’anni tra carcere e arresti domiciliari, ha ottenuto uno sconto di pena rispetto a quanto stabilito un paio di anni fa dalla quarte Corte d’Appello del capoluogo lombardo.
Tre mesi di pena in tutto, per esattezza: da sei anni e mezzo a sei anni e tre mesi.
La rideterminazione di pena ha riguardato anche i due imputati, chiamati a rispondere in concorso degli stessi reati dell’ex numero 2 dell’Ilva: tre anni e sei mesi di reclusione (in precedenza erano cinque anni di carcere) per Alfredo Lo Monaco, amministratore della società svizzera Eufintrade Sa; e due anni e 10 mesi (contro tre anni) per Agostino Alberti, ex dirigente (originario di Caronno Pertusella) del gruppo Ilva.
Il processo di ieri non ha intaccato dunque la tesi accusatoria che ha portato alle condanne. Per intenderci sono già passate in giudicato sia la multa da 1,5 milioni di euro per la Riva Fire sia la confisca complessiva di 90,8 milioni di euro e una provvisionale da 15 milioni di euro da versare al Ministero dello Sviluppo Economico, parte civile nel procedimento.
Alquanto complessa la materia processuale incentrata su una truffa ai danni dello Stato dell’ammontare di circa 100 milioni di euro, realizzata attraverso l’ottenimento di contributi pubblici, erogati da Simest (controllata da Cassa Depositi e Prestiti), per il sostegno alle imprese italiane che esportano. Secondo l’ipotesi accusatoria, il gruppo della famiglia Riva avrebbe ottenuto indebitamente contributi pubblici, interponendo in una serie di operazioni a Ilva Spa la società svizzera del gruppo, Ilva Sa.
La Legge Ossola, al centro del “raggiro”, prevede che a fronte di dilazioni di pagamento tra i due e i cinque anni da parte di acquirenti esteri, le imprese italiane possano accedere a contributi erogati da Simest.
Per l’accusa, Ilva spa non avrebbe avuto diritto a questo tipo di sostegno, data la natura dei pagamenti ricevuti, e quindi è stata interposta in molte operazioni l’Ilva Sa, la quale, nonostante non avesse alcun ruolo operativo o produttivo, risultava l’acquirente dei prodotti dell’Ilva e la società che aveva effettuato i contratti con gli acquirenti esteri.
Ilva Sa emetteva nei confronti di Ilva Spa delle cambiali internazionali che, con l’interposizionedella società svizzera Eeufintrade, permettevano a Ilva Spa di avere i requisiti per ottenere i contributi pubblici, quando la società Ilva Sa, che faceva parte dello stesso gruppo, incassava i pagamenti dall’estero senza ritardi o dilazioni.
Ancora da definire, dopo il no a un patteggiamento da parte del gup milanese Maria Vicidomini il procedimento con al centro i reati, a vario titolo, di bancarotta, truffa allo Stato e trasferimento fittizio di valori per il crac del gruppo che controllava l’Ilva di Taranto.
Lo stesso giudice, fra l’altro, oltre a bocciare le condanne per il fratello e i figli di Emilio Riva, rispettivamente Adriano, Nicola e Fabio, ha cassato anche l’intesa con cui i Riva, lo scorso dicembre, avevano dato l’assenso a far rientrare in Italia 1,33 miliardi di euro per metterli a disposizione della bonifica ambientale dello stabilimento Ilva di Taranto.
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