CASO MACCHI
«Tutto il tribunale negligente»
Nessuna «sete di vendetta», né tantomeno «voglia di rivalsa» nei confronti di Agostino Abate, per oltre un quarto di secolo pm del caso Lidia Macchi, che lunedì sarà “processato” dalla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura anche (ma non solo) per le «negligenze» legate alla gestione del fascicolo sulla morte della ventenne studentessa di Casbeno assassinata al Sass Pinì nel gennaio di 30 anni fa.
«La famiglia Macchi ha appreso dalla stampa la posizione del Csm a carico di Abate e certamente seguirà con grande attenzione anche questo iter giurisdizionale, proprio come fatto sinora per ogni singolo tassello che ha riguardato le indagini sulla morte di Lidia», ha commentato l’avvocato Daniele Pizzi.
A seguire il ragionamento del legale dei parenti di Lidia - la mamma Paola, la sorella Stefania e il fratello Alberto -,«al di là delle accuse mosse nello specifico al magistrato a cui sono state avocate le indagini su istanza dalla famiglia Macchi», è evidente come in tutti questi anni di inchiesta «all’interno del Tribunale di Varese si sia verificato un vero e proprio cortocircuito giudiziario».
«Credo sia intollerabile che un gip ( Ottavio D’Agostino, ndr) possa aver distrutto, con una facilità a dir poco disarmante, i reperti che contenevano il Dna dell’assassino e che oggi, con un processo in Corte d’Assise ormai alle porte, sarebbero stati preziosissimi, se non risolutivi», argomenta Pizzi.
«Non dimentichiamo che nessuno, nemmeno il procuratore capo dell’epoca, ha in alcun modo provato ad impedire che ciò avvenisse. Questo, purtroppo, significa una cosa sola: che su quei reperti non è stata effettuata la vigilanza necessaria».
«Con il senno di poi mi fa accapponare la pelle il rileggere alcuni lanci stampa del 2007 nei quali il capo della Procura di Varese Maurizio Grigo comunicava di aver istituito un pool dedicato ai “cold case”, che si sarebbe occupato, tra le altre cose, di analizzare anche i reperti relativi all’omicidio di Lidia Macchi: grandi annunci mediatici fatti nonostante quegli stessi reperti fossero stati già distrutti da sette anni…», ha stigmatizzato l’avvocato Pizzi.
«Mi ha lasciato infine basito aver constatato come, secondo i resoconti ufficiali, i magistrati di Varese si sarebbero resi conto dell’avvenuta distruzione dei reperti soltanto nel 2013 a seguito dell’avocazione delle indagini. Ciò, infatti, conferma che quei reperti non sono mai stati considerati a dovere: cosa a dir poco inquietante se si pensa che, se analizzati sul finire degli Anni Novanta, quindi prima della loro distruzione, avrebbero consentito di estrarre un profilo genetico dell’assassino, proprio come è avvenuto in quello stesso periodo nel caso del killer seriale Donato Bilancia».
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