PEGORARO
Un cowboy per nulla pentito
Le motivazioni della condanna in appello inflitta al killer del sindaco Laura Prati. E spunta il movente politico
«Cow boy a sessant’anni, una botta di vita». Altro che pentimento. Questo infelice commento uscì dalla bocca di Giuseppe Pegoraro quando ormai era in carcere, durante un colloquio con i parenti. Nessun rimorso per aver sparato al sindaco Laura Prati, men che meno per aver colpito il suo vice, l’anziano Costantino Iametti. Ridendo, ai fratelli spiegò: «Dovevo toglierlo...siccome c’è un corridoio stretto, dovevo toglierlo di mezzo e gli ho sparato nel culo...visto che lui mi ha preso per i fondelli per trent’anni». E dietro a tanto disprezzo per le cariche amministrative, secondo i giudici della corte d’assise d’appello potrebbe esserci un movente politico. «Tutti i documenti rinvenuti in casa di Pegoraro», si legge nelle motivazioni depositate nei giorni scorsi, «dimostrano che il sindaco e il vice erano considerati dei bersagli per via dell’appartenenza a una determinata forza politica, propugnatrice di idee lontane dal rozzo compendio ideologico che traspare dalle carte di Pegoraro», si legge nelle motivazioni depositate nei giorni scorsi. «Tale forza politica era, nel pensiero dell’imputato, responsabile sia delle sue vicende giudiziarie e disciplinari sia della circostanza che lo aveva visto retrocedere da una posizione di comando a quella di subordinato». I giudici ne sono convinti: «Le azioni di Pegoraro - compresa l’identificazione della sede della Cgil come obiettivo da colpire - sono da ricondurre all’odio verso una determinata parte politica, da lui ritenuta avversaria». Laura Prati ne incarnava la personificazione. In carcere disse alla sorella, durante una visita: «Non potendo colpire tutti i colpevoli, ho colpito la testa del serpente, la donna in cabina di regia che non firma nulla ma tutto dirige». Date le premesse, neppure la corte d’assise d’appello gli ha concesso le attenuanti generiche. Anzi, con la sentenza dello scorso 19 aprile, i giudici di secondo grado hanno aggiunto un anno e quattro mesi in più all’ergastolo che già gli aveva inflitto il gup Giuseppe Limongelli, riconoscendo quindi la resistenza a pubblico ufficiale agli agenti del commissariato che il 2 luglio del 2013, dopo l’agguato in Comune, vennero aggrediti a suon di fucile e carabina mentre cercavano di bloccare la fuga di quel Rambo impazzito. «Se vedo una divisa con in mano qualunque cosa, fosse anche un tagliaunghie, sparo alla testa. Sparo nel mucchio se sento puzza di agenti in borghese»: queste parole le aveva scritte di suo pugno l’imputato, in un memoriale in cui annunciava lo sterminio di tutti i suoi nemici, ossia gli amministratori che lo avevano emarginato dopo una condanna per peculato, i giudici che avevano sentenziato, la giornalista che seguì la cronaca giudiziaria delle sue disavventure a palazzo di giustizia. D’altro canto, lo disse pure lui a caldo, mentre scappava dal municipio lasciandosi alle spalle sangue e polvere da sparo; lo disse a una dipendente incrociata durante la fuga: «Ho regolato i conti».
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