L’ARTISTA
Una varesina alla Scala
Le emozioni del soprano Chiara Butté alla prima di oggi con l’Andrea Chénier
Ogni 7 dicembre si celebra al Teatro alla Scala un rito mondano e culturale radicato nell’immaginario collettivo. È un rito atteso con ansia dai melomani e dagli irriducibili del loggione, disposti ad affrontare ore di coda per un biglietto, seguito anche da chi di solito non si interessa all’opera lirica. Negli ultimi anni la prima scaligera è del resto diventata un evento mondiale: l’“Andrea Chénier” di Umberto Giordano, in scena tra poche ore (alle 18.00) con Riccardo Chailly sul podio e la regia di Mario Martone, sarà infatti trasmesso in diretta sia radiofonica su Rai 3 sia televisiva su Rai Uno, oltre che in molti cinema in Italia e all’estero. L’attenzione mediatica fa crescere l’attesa del pubblico e cresce anche l’emozione degli artisti della Scala, come ci racconta il soprano varesino Chiara Butté, membro del coro scaligero.
«Sono l’unica varesina del Coro, da quando, lo scorso anno, il tenore Silvio Scarpolini è andato in pensione. E anche se canto alla Scala da 21 anni, ogni 7 dicembre per me è sempre molto bello».
Avvertite la pressione mediatica? -
«Avvertiamo una grande responsabilità, però noi del coro e dell’orchestra siamo ormai diventati una creatura della Scala e ci sentiamo a casa nostra. Poi c’è la gioia di stare sul palcoscenico accanto a star internazionali come Anna Netrebko, che qui è particolarmente amata, e suo marito Yusif Eyvazov, guidati da un direttore fantastico, Riccardo Chailly, che ha molto a cuore questo repertorio verista».
È la prima volta che affronta l’“Andrea Chénier”?
«Sì, come molti dei coristi e degli orchestrali, visto che manca alla Scala da 32 anni!».
Cosa può anticiparci della regia?
«Andrea Chénier è un’opera molto attuale per la presenza di un duplice piano, l’amore da una parte e la Storia dall’altra, e Martone è riuscito a dare evidenza a entrambi gli aspetti, con una piattaforma girevole che permette di alternare continuamente i vari momenti. È interessante la contrapposizione tra i personaggi di contorno, che sono figure statiche, e i protagonisti, pieni di slanci. Trovo che sia una regia particolarmente riuscita, come i costumi, bellissimi».
Come vivete, da coristi, i momenti delle arie e dei duetti?
«Ci sentiamo parte di tutto quello che accade sul palcoscenico. Proviamo per un mese, prima all’Ansaldo e poi sul palcoscenico della Scala, costruiamo l’opera insieme ai solisti e spesso, durante le prove, li ascoltiamo dietro le quinte. Certo, durante la rappresentazione non lo possiamo fare, perché dobbiamo correre a cambiarci: a volte non c’è nemmeno il tempo di raggiungere i camerini e il cambio avviene proprio dietro il palcoscenico, con l’aiuto delle sarte e delle parrucchiere. Nel primo quadro, per esempio, abbiamo solo un quarto d’ora per cambiarci da pastorelle e nobili in popolani, però le maestranze della Scala sono tra le migliori al mondo e questo ci mette a nostro agio».
Immagino che abbiate trascorso l’ultimo mese immersi nell’attesa della prima…
«Certamente, e più il momento si avvicina più l’emozione cresce. Domani però (oggi per chi legge, ndr) andremo in scena per la quarta volta dopo l’antigenerale, la generale e l’anteprima per i giovani: c’è molta sicurezza. Alla fine per noi il 7 dicembre rappresenta un momento di grande gioia, perché ci sentiamo ambasciatori nel mondo della bellezza della musica e dell’opera lirica. E ci sentiamo orgogliosi di essere italiani».
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