CORONAVIRUS
«A noi cinesi, voi fate paura»
Li Min Chen, titolare del più antico ristorante asiatico, racconta la disciplina dei connazionali nell’affrontare l’emergenza. «Troppi italiani, invece, disobbediscono agli ordini»
Ci osservano con gli occhi a mandorla e sono disorientati. Loro, i cinesi, sono barricati in casa, con cibo stipato per affrontare una guerra, tant'è che non se ne ammala quasi nessuno nell'attesa che tutto torni alla normalità. Ma attorno vedono «troppa gente che non rispetta le regole», come dice Li Min Chen, primo ristoratore cinese della provincia.
Li Min, come va?
«Io e la mia famiglia siamo chiusi in casa da 23 giorni. Ho fatto la scorta, certo ero avvantaggiato dal ristorante, esco raramente per quel poco che manca a me e ai miei genitori, ma il meno possibile».
Gli altri cinesi del territorio cosa fanno?
«Peggio di me. Stanno blindati, io sono più italiano... Hanno messo via cibo per un paio di mesi, tutto congelato. Lo hanno fatto 15 giorni prima degli altri».
La maggioranza è scappata o resta qui?
«Quasi tutti qui, non è facile muoversi e molti hanno la famiglia e i figli integrati. Però tutti noi siamo convinti che in Cina sarebbe più sicuro. E poi, razionalmente, bisogna pensare che si deve rimanere».
Guardando agli italiani, cosa pensate?
«Che in Cina non potrebbe mai violare le norme, là i provvedimenti sono drastici. Qui invece bisogna stringere la vite un po’ alla volta per farlo capire. Per questo i cinesi sono spaventati di cosa succede».
La mentalità è insomma proprio diversa?
«Noi sappiamo che bisogna fare come ti dicono. Se inoltre si capisce che una cosa è giusta, nessuno si sognerebbe di disobbedire. Sarebbe un vergognoso schiaffo alla sanità».
Non esistono fra di voi gesti di irresponsabilità?
«Se dovessi sgarrare oggi, verrei isolato. In Cina finirei in carcere, qui comunque sarei moralmente espulso e considerato un deficiente. Io mi rendo conto che molti italiani si sentono furbi, ma a noi non sembra furbizia».
Cosa ne sarà delle vostre attività?
«Ripartiremo quasi tutti, ma non so quando. Noi avremmo preferito che si chiudesse tutto in Lombardia, già da tempo, dando il compito al resto dell’Italia di produrre. Invece purtroppo si è lasciato che tutte le zone si contagiassero. Fino a poco tempo fa ero fiducioso sulla ripartenza a fine aprile, ora non più».
Vi aiutate fra di voi?
«Moralmente sì, mentre dal punto di vista economico non serve. Tutti più o meno hanno via qualcosa».
È vero che quasi non ci sono cinesi malati?
«Chi si è contagiato lo ha fatto all’inizio dell’emergenza, quando ancora non si capiva bene. È capitato a un mio zio a Bergamo e lo ha aiutato il consolato ad avere medicinali dalla Cina. Poi basta, perché stiamo chiusi in casa. Le notizie che arrivavano da Wuhan era chiare e ci siamo mossi per tempo».
Insomma, vi salva la vostra disciplina?
«Voi la chiamate così. Io lo chiamo buon senso».
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