CICLISMO
Pa’ Togn e i miti del pedale: rivive un’epopea
Alfredo Ambrosetti onora il padre e i campionissimi incontrando i discendenti dei più grandi delle due ruote italiane

Le cose andavano più o meno così: Alfredo Binda rientrava a Cittiglio, dove era nato operaio e non immaginava che di lì a qualche anno sarebbe diventato re, imboccava l’attuale via Veratti, nel centro di Varese, smetteva di pedalare e per inerzia si fermava davanti a un garage sulla cui porta, puntuale come un orologio svizzero, c’era ad attenderlo il suo amico più caro.
Uno di quei personaggi d’epoca che viveva di lavoro e passione, che si sporcava le mani con il grasso delle automobili e se le lavava religiosamente prima di toccare due cose preziose: il manubrio delle biciclette da corsa e le pagine rosa della “Gazzetta dello Sport”, il giornale per il quale, da piccolo, aveva fatto lo strillone.
Era costui Antonio Ambrosetti detto “pa’ Togn”. Binda lo salutava e gli raccontava d’aver migliorato i tempi della quotidiana scalata del Cuvignone, la montagna che protegge casa sua, oggi museo. L’altro gli sorrideva, gli toccava una spalla come si fa con la statua di un santo, insieme andavano a bersi un bianchino. Poi il campionissimo risaliva in sella e percorrendo il viale Aguggiari si dirigeva verso il Brinzio per tornare in Valcuvia.
Deve aver pensato a questo siparietto degli anni ‘40 l’altro Alfredo, Ambrosetti, il figlio di Antonio, quando ha deciso di invitare a pranzo in un ristorante famoso dalle parti di Novara i discendenti dei patriarchi del ciclismo nazionale: i Coppi, i Bartali, i Girardengo, i Magni, naturalmente i Binda. L’evento si è materializzato domenica 10 giugno e per raccontarvene i ricordi, le atmosfere, gli aneddoti che come potete immaginare sono sgorgati dal cuore dei presenti con l’effervescenza del Lambrusco novello, dobbiamo tornare con la memoria a un altro meeting non dissimile datato 26 ottobre 2002 e svoltosi a Villa Ponti.
Quel giorno, forse senza esserne convinto fino in fondo, Alfredo Ambrosetti lanciò alla sua città questa sfida: cari varesini, gettiamo il cuore oltre l’ostacolo e chiediamo agli organismi internazionali di ospitare alle nostre latitudini il campionato mondiale di ciclismo. Cosa che avvenne sei anni dopo, nel 2008, con una ciliegina sulla torta: vinse un italiano, Alessandro Ballan, vendicando lo scorno del 1951 quando, sempre a Varese, aveva trionfato uno svizzero, Kubler.
Bene, oggi nel convivio della nostalgia, tra figli, nipoti e pronipoti dei campionissimi del passato, chi c’era ha provato le stesse emozioni. Guardandosi attorno, è stato come rimettere a fuoco profili noti, trasfigurati dal tempo, si capisce, ma sempre riconoscibili perché un campione della sport irrompe nell’immaginario collettivo con la forza di uno tsunami e v’imprime un segno che non muore mai. Quanti ricordi per gli anziani che avevano conosciuto l’Alfredo di Cittiglio, uomo bello, elegante, imponente, carismatico, che avrebbe potuto interpretare i film di Rossellini se non l’avesse abbagliato il luccichio di un telaio.
E quante leggende sfuggite anche al più attento dei biografi. Una è saltata fuori all’improvviso durante una posa fotografica, tramandata ai contemporanei da un vecchio meccanico. Sapete come fece il furbissimo Binda a ritirarsi da un Tour de France che la sua scuderia, la “Legnano”, non voleva portare a termine per ragioni sulle quali sarebbe inutile indagare oggi? Nel corso dell’undicesima tappa l’Alfredone prese un cacciavite che aveva messo in una tasca della maglia e, svelto come un gatto, sabotò il cannotto reggisella rendendolo inservibile. Il suo ritiro fu un grave oltraggio per i francesi, interessati ovviamente a sfruttare la notorietà del fuoriclasse di Cittiglio che al Tour partecipò una sola volta, ma a mezzo servizio.
Un’altra bella testimonianza l’ha offerta Alfredo Ambrosetti conosciuto da tutti: è l’inventore dei celebri workshop di Cernobbio che richiamano su quel ramo del lago di Como, alle idi di settembre, i potenti della Terra. Il figlio di pa’ Togn, conversando con i numerosi invitati speciali, è tornato al Mondiale del 1951, organizzato da suo padre, storico fondatore e presidente della società ciclistica Binda: «Io ero un ragazzino e ricordo la frenesia e la tensione che circolavano per casa. Captavo gli echi della grandezza che stava assumendo l’evento. La sera di vigilia della corsa, il primo settembre, papà mi portò a visionare il circuito che si snodava tra Brinzio, Bedero, Varese, in viale Valganna, e terminava all’ippodromo delle Bettole sulla linea del traguardo. Si vedevano fuochi accesi negli improvvisati bivacchi di tifosi, si coglievano parole d’entusiasmo, si respirava un clima di febbrile attesa. Restai sbalordito. Il percorso seguiva la traccia di quello pensato nel 1939, accorciato di pochi chilometri. Non se ne fece nulla per via dell’inizio della guerra. Secondo una stima il Mondiale del ‘51 ebbe 800mila spettatori, forse un milione. E papà era raggiante accanto a Binda che era il commissario tecnico della squadra azzurra in ritiro a Velate, nell’attuale Villa Sorriso. Coppi non partecipò per divergenze con il suo manager. Io il giorno delle gara fui incaricato di tenere i collegamenti tra la giuria e i giornalisti. Distribuivo comunicati stampa, compreso quello con l’ordine di arrivo. Esperienza indimenticabile che segnò la mia vita e che mi ha indotto a organizzare oggi il raduno con i discendenti dei grandi campioni d’allora. Perché l’ho fatto? Per onorare lo sport nazionale e per mandare un affettuoso saluto a mio padre che da lassù avrà sorriso».
Storie d’altri tempi, «di prima del motore» canta De Gregori. E in un diluvio di note batte il chiodo anche lui raccontandoci di Girardengo e di Pollastri, campione il primo, bandito il secondo, legati dalla stessa passione: la bicicletta. Doveva arrivare Coppi, di cui l’anno prossimo ricorrerà il centenario della nascita, per trasformare un mezzo di trasporto in un simbolo di gloria. E doveva trionfare Bartali, al Tour del 1948, perché il Paese sull’orlo di un conflitto civile in seguito all’attentato a Togliatti trovasse in quel «naso triste come una salita» il coraggio d’una scelta: gettare le armi e stringersi attorno a lui, il Gino che aveva uccellato i francesi. Di tutto questo il pranzo di Novara è stato uno strepitoso amarcord. Ancora grazie ad Ambrosetti e alla sua famiglia. Dobbiamo spiegarvi perché per nome di battesimo gli è stato imposto il nome Alfredo?
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