ANNIVERSARI
Apocalisse a Firenze, 50 anni fa
Giorgio Lotti, un grande fotografo varesino, racconta l’alluvione: «Una città sui tetti». Cecchi tra gli ”angeli del fango”

Erano le sette di una serata uggiosa. Pioveva da ore e tutta la Toscana era spazzata da un vento teso. Alle porte di Firenze il rombo del fiume era simile a quello di un jet in fase di atterraggio sulla pista di un qualsiasi aeroporto.
Più passavano i minuti, più diventava assordante. I tecnici di due dighe dell'Enel che s'innalzano a guardia di una vallata stretta, qualche chilometro fuori città, dettarono per telefono ai loro capi le coordinate d'un disastro a quel punto prevedibilissimo: l'onda di piena era ormai incontenibile, altro non c'era da fare che spalancare le paratie e lasciare che l'acqua scorresse liberamente.
«Chissà perché fanno suonare la sirena», sospirò il contadino Lorenzo Raffaelli. Non capì che quel grido prolungato preannunciava l'inferno. E se lo capì, essendo stato traghettatore in gioventù, pensò che andare a letto e affidarsi alla provvidenza fosse la cosa migliore da fare. Fuggire? E dove?
Cinque case, la campagna, il fiume, le dighe: questa la scena. Un angolo di paradiso nelle giornate estive, soprattutto al tramonto. Un luogo spettrale con quel cielo imbottito di nuvole e con l'Arno sull'orlo del collasso. Fu questione di pochi minuti. Dal cuore dei due colossi di pietra cominciarono a sgorgare ettolitri d'acqua. La valle ne fu subito invasa, il fiume s'ingrossò in un lampo e cominciò a correre all'impazzata verso Firenze.
Quattro novembre 1966: sono passati 50 anni e chi ha vissuto quegli attimi, chi li ha visti riprodotti sulla tv in bianco e nero, chi ne ha letto i resoconti sui giornali, non dimentica l'Arno limaccioso sul Ponte Vecchio, le botteghe degli orafi allagate, le emozioni, i pianti, le grida di una delle città più belle del mondo stritolata dai tentacoli della piovra.
Negli archivi della memoria collettiva alla voce calamità naturali figurano tanti capitoli, anche recenti: il Polesine, il Vajont, il Friuli, la Campania, L’Aquila, Amatrice, qualche giorno fa Castelsantangelo sul Nera e Ussita. Un'alluvione apocalittica, l'esplosione di una diga, disastrosi terremoti. Ricordi sbiaditi di lutti, di pianti, di ricostruzioni. Ma quello che accadde a Firenze, vuoi per i danni patiti dalla cultura nazionale, vuoi per i richiami a un luogo amato in tutto il pianeta, ha lasciato un segno particolarissimo.
Giorgio Lotti, fotografo di lungo corso, varesino da tempo, allora inviato speciale di Epoca, è l’autore di scatti che hanno fatto il giro del mondo in quell'inverno del 1966. Ecco il suo racconto: «Partii per Firenze dopo l'arrivo in redazione del primo flash d'agenzia e andai subito alla ricerca del sindaco Bargellini. Lo trovai su un tetto, insieme con i soccorritori che da lassù dominavano la scena e decidevano come intervenire. C'era acqua dappertutto. Acqua mista a nafta perché erano scoppiate le tubazioni del riscaldamento». Qualche emozione particolare, Lotti?
«Sì, una, legata a un personaggio straordinario: la professoressa Bonelli, direttrice del muso della Scienza. Mentre imperversava il diluvio rischiò la vita per salvare dalla rovina la famosa lente di Galileo e un cosmo arabo già in balia dell'alluvione quando le mani di quella donna di ferro lo afferrarono».
E le centinaia di “angelo del fango”, i giovani che si precipitarono a Firenze per aiutare gli alluvionati ... «Ne ho ritratti parecchi con gli stivaloni, i cappotti sporchi di fango, la faccia distrutta dalla fatica. Una famosissima: quella del regista Franco Zeffirelli, un’altra allora sconosciuta: quella di Antonello Venditti. Ma non dimentico i frati di Santa Croce, la loro disperata ricerca, tra le macerie, dei colori del Crocefisso di Cimabue che l'acqua aveva cancellato per sempre. La professione mi ha portato sulla scena di altre catastrofi: Firenze 1966 ha avuto, non solo per me, un pathos irripetibile».
Un altro testimone di quei giorni terribili è Roberto Cecchi, fiorentino verace, da qualche mese assessore alla Cultura a Varese: «La mia casa fu risparmiata. La proteggeva l’argine di un torrente a Fortezza da Basso. Ero studente, avevo 17 anni, fu inevitabile correre a dare un aiuto. Mio zio mi prestò gli scarponi con i quali era tornato dalla campagna di Russia. Prima di arruolarci ci facevano ingoiare pillole contro le infezioni. Eravamo tanti. Io lavorai nei sotterranei di Palazzo Strozzi dove c’erano migliaia di libri da recuperare sotto la melma. Momenti drammatici ed esaltanti. Firenze divisa su tutto, si ritrovò compatta sul fronte dei soccorsi. Per vent’anni non bevemmo acqua del rubinetto. Era piena di cloro, disgustosa».
Le fotografie di Lotti, 80 anni a gennaio prossimo, parlano da sole. Parla la giovane con i capelli lunghi e i pantaloni a zampa d'elefante che esce dalla biblioteca nazionale reggendo una carriola piena di libri distrutti. Parla quel prezioso ritratto in bilico tra la melma nella sacrestia di Santa Croce. E parla, anzi urla rabbia e disperazione, quella barca che vaga nel centro di Firenze tra tetti d'automobile a pelo d'acqua. Immagini immortali, le istantanee del dolore.
Duecentocinquanta milioni di metri cubi d’acqua e melma si precipitarono a settanta all’ora per sommergere le strade, le chiese, i musei della città di Dante. Le fogne del Granduca eruttarono ed esplosero all'aperto rovesciando quintali di fango alla superficie.
In tutte le tragedie dell'uomo c'è un orologio che si ferma sull'attimo fatale. A Bologna le lancette vennero folgorate dall'esplosione del tritolo alla stazione, a Milano dal botto nell'ordigno nella banca di piazza Fontana.
A Firenze le 7 e 20 minuti tramandarono ai posteri l'istante esatto in cui la bomba d'acqua piombò su quell'impareggiabile ricamo di antichità che circonda il campanile di Giotto, la cupola del Brunelleschi, piazza della Signoria.
È quella l'ora del diluvio in Santa Croce, dove l'acqua salì vertiginosamente fino a rapire il Crocefisso del Cimabue. È quella l'ora della morte di centinaia di vecchi volumi che stavano nelle biblioteche e che nei giorni successivi vennero allineati dai soccorritori sui marciapiedi. Proprio come si fa con le salme. Pagine bianche, copertine sgualcite, un patrimonio incommensurabile. Cancellato per sempre.
La televisione portò nelle case le immagini di una città che «si era misteriosamente trasferita sui tetti» per sfuggire alla furia dell'alluvione. Precedenza a malati, invalidi, donne e bambini. Ma lassù, in quei rifugi aerei, s'arrampicarono anche gli uomini incaricati di organizzare gli aiuti: vigili del fuoco, genieri, poliziotti, volontari arrivati in un baleno da tutto il mondo. Si precipitò Saragat, presidente della Repubblica, e venne contestato da gente arrabbiata con Dio e con le istituzioni.
Poi vennero i giorni del valore civico, dello slancio eroico, della voglia di salvare il salvabile. Poi Firenze risollevò il capo, miracolosamente, e se un anniversario vale la pena di festeggiare oggi è quello della grande prova di coraggio che i fiorentini offrirono al pianeta ricambiando, con una ricostruzione prodigiosa, le premure, le attenzioni, le sofferenze registrate dovunque ci fossero estimatori della città del giglio e dei suoi tesori.
Quattro novembre 1966, quattro novembre 1333: è vero che la storia si ripete. Con gusto e in qualche caso con perfidia. Già, perché un’alluvione biblica Firenze la patì anche all'epoca del Boccaccio, stesso giorno stesso mese. Quasi una maledizione che la città dei Medici si augura d'aver definitivamente esorcizzato.
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