IL CASO
Falla nel server, udienza nulla
Colpo di scena al processo, le accuse sono fumose e bisogna ripartire “dal via”
Buchi nel server della procura ieri, lunedì 18 marzo. Il giudice Cristina Ceffa ha dato una svolta determinante al processo: accogliendo le eccezioni preliminari avanzate dalla difesa nella prima udienza, ha dichiarato la nullità del decreto che ha disposto il giudizio per indeterminatezza del capo di imputazione formulato nei confronti dell’amministratore delegato di una delle quattro maggiori società private di intercettazioni e dell’azienda stessa, che ha sede a Vizzola Ticino. Gli atti quindi torneranno al gup di Milano e bisognerà ripartire dal via, un po’ come nel Monopoli.
L’ipotesi dell’accusa è di introduzione in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, con l’aggravante di aver commesso il fatto su un dispositivo di interesse pubblico.
Detto in termini colloquiali: a parere della Dda di Milano, la ditta finita in tribunale correva il rischio di far trapelare all’esterno informazioni ed elementi istruttori delicati. Da cosa nacque questo sospetto? Dal rinvenimento su dodici postazioni aziendali di spezzoni di fonìe, sms, numeri e nomi che per legge sarebbero dovuti stare solo sui server delle trentasette autorità giudiziarie che avevano svolto indagini tra il 2009 e il 2016.
Per questa vicenda si mobilitarono i pm di Busto e Trieste, il Garante della privacy, il Consiglio superiore della magistratura e il ministero della Giustizia per capire se per le imprese private del settore esistesse la potenzialità tecnica di scaricare dati e trattenerli sui propri computer locali.
La difesa è certa: «È evidente che questioni tecniche attinenti alla sicurezza informatica siano state scambiate per reati dolosi». L’indagine partì da Trieste: gli investigatori si accorsero che alcune intercettazioni erano finite sul pc di una impiegata che da Vizzola aveva operato su richiesta dei pm per cercare di ritrovare file-audio che temevano aver perso sul server.
A dicembre del 2015 ci fu una perquisizione della postazione di lavoro della donna, a cui partecipò anche la magistratura bustese. Il procuratore capo Gianluigi Fontana inviò al Garante della Privacy una segnalazione - nonostante, a suo parere, non ci fossero elementi di reato - , il collega triestino avvisò il Comitato di presidenza del Csm che a sua volta investì il ministero della Giustizia: il guardasigilli allertò gli organi di sicurezza e diramò circolari per suggerire alle procure di elevare gli standard di massima riservatezza nei contratti con le società.
Poi tutti gli atti vennero trasferiti alla Dda di Milano per competenza e a luglio il gip ha disposto il processo a Busto. La difesa però ha subito fatto presente al giudice una lacuna:
«Lo stesso pubblico ministero, nei capi di imputazione, non ha in alcun modo individuato quale sarebbe stato l’interesse o il vantaggio per la società di questo presunto comportamento illecito. Inoltre il pm non indica alcuna situazione di luogo e tempo specifica nella quale l’allora amministratore delegato, insieme ad alcuni collaboratori non indicati, avrebbe compiuto l’accesso al sistema informatico senza autorizzazione. Inoltre nessun dato è uscito dai singoli computer dell’help desk e non esiste alcun archivio centralizzato di dati trattati nel corso dell’attività di assistenza».
© Riproduzione Riservata