IL CONTRACCOLPO
Il Coronavirus uccide gli affari cinesi
«Timori infondati, ma è un disastro» spiega Li Min Chen, titolare del ristorante orientale più antico della provincia

Il suo ristorante cinese è forse il più antico del territorio. La sua famiglia lo aprì trent’anni fa e, da allora, gli affari hanno sempre girato abbastanza bene.
Di posti a sedere ne ha più di settanta, di solito quasi tutti occupati, ma da una settimana è calato il buio. «Venerdì sera, che solitamente è un momento abbastanza propizio, bastavano le dita di una mano per contare i clienti. Anzi, non servivano neanche tutte», sospira Li Min Chen, simbolo dell’integrazione orientale attraverso il lavoro: oggi ha 47 anni, ma arrivò in Italia che ne aveva appena 12.
Chen parla benissimo l’italiano (è stato anche il primo candidato consigliere comunale della storia cittadina) e nella mentalità italiana si è anche immerso: «Non mi state sorprendendo - dice - perché già nel 2003, quando ci fu la Sars, accadde la stessa cosa. Fu dura rialzarsi, ma ce l’abbiamo fatta. E lo faremo anche questa volta».
Anzi, «sono fiducioso del fatto che l’esperienza passata servirà ad affrontare meglio il problema, attivando un canale di informazioni che servano a spiegare che le paure nei nostri confronti sono infondate».
Per questo, nonostante tutto, non perde il sorriso: «Bisogna solo che passino questi giorni di confusione e panico, in cui la gente scappa davanti alle persone con gli occhi a mandorla, figurarsi se poi viene a mangiare nei nostri ristoranti...».
Li Min Chen è inserito nelle chat dei ristoratori orientali. Sta raccogliendo le loro preoccupazioni e le paure di avviarsi al tracollo. «La maggioranza si è data al sushi giapponese, ma appunto i gestori sono in larghissima maggioranza cinesi. In quel caso il calo di presenze è forte ma non fortissimo come nel mio caso. Per loro parliamo del 40 per cento sugli incassi, mentre a noi che cuciniamo cinese non è rimasto quasi niente».
E a soffrire «sono anche coloro che hanno saloni di parrucchieri, mercatoni e altre attività non alimentari, con una crisi più contenuta ma che comunque si vede chiaramente».
Fra di loro i cinesi si stanno chiedendo cosa fare. «Può essere - prosegue il ristoratore bustese - che qualcuno decida di fermare l’attività per qualche settimana, lasciando passare il ciclone. Di certo spingeremo molto sull’aspetto comunicativo, per far comprendere la verità di questo virus, però l’importante è che ci sia unità d’intenti. Non dobbiamo agire in maniera indipendente, facendo passare messaggi mal interpretabili».
Fra le tante cose che Chen vorrebbe far sapere, c’è il fatto che «in questo territorio quasi tutti vengono come la mia famiglia dalla regione di Zhejiang, vicino al mare. Un discreto numero arriva da Shangai e Pechino, mentre di Whuan non ne conosco nessuno. Significa che i nostri parenti abitano a duemila chilometri dall’epicentro del maledetto Coronavirus. È come dire che è scoppiato un problema a Budapest e che gli italiani vengono considerati dei pericoli».
Certo in questi giorni sta accadendo un altro fenomeno strano: non mancano, neppure a Busto, casi di attività cinesi di elettronica o di vestiti che espongono il cartello “chiuso per ferie”.
Il motivo dell’anomalia lo spiega sempre lui: «Qualcuno, come sempre, è tornato a casa per il capodanno cinese. Sarebbe dovuto rientrare nei giorni scorsi, ma è arrivato il blocco dei trasporti aerei. Così non resta che avvisare i clienti, specie in quei locali condotti da una o due persone. Se non ci sono quelle, chi lavora?».
Eppure Li Min riferisce che la grande paura appartiene ad altri, cioè ai giganti della ristorazione: «Soprattutto i colleghi che hanno aperto da poco sono terrorizzati. Per comprenderlo serve conoscere la nostra mentalità: noi non facciamo come gli italiani che aprono i fidi con le banche. Noi investiamo tutto quello che abbiamo per avviare un’attività e calcoliamo gli anni che ci serviranno per rientrare e poi guadagnare. Se la cosa non accade, siamo veramente nei guai».
E confida: «Ho un amico che ha appena finito i lavori ed è pronto a inaugurare il suo esercizio. Io gli ho detto di aspettare, ma lui mi dice che non può. Lo capisco: quando hai assunto venti dipendenti, magari trenta, come fai? Realtà come la mia, che funzionano da anni e che hanno già dato in passato i loro frutti, si riprenderanno e possono resistere per un po’. Ma un posto con tanta forza lavoro, quindi tanti stipendi da pagare, non può reggere due o tre mesi in queste condizioni. Vuol dire lasciare tutti per strada. È un dramma».
L’ultimo messaggio è ancora per i clienti: «Capisco le loro paure, ma sono immotivate. Spero che con il passare dei giorni e un’informazione puntuale, le cose cambino». Detto ciò Li Min torna a gestire il suo ristorante, anche se è quasi vuoto: «Si va avanti, per forza, anche se la gente ci guarda come appestati. E dire che da me a lavorare sono più gli italiani e i pachistani dei cinesi. Ma da domenica scorsa va così. Noi non ci arrendiamo, però è un incubo».
A Milano, nei giorni scorsi, c’era stato un pranzo contro la psicosi che penalizza i ristoranti cinesi.
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