LA SENTENZA
Evase: Elia Del Grande condannato
Tentò di fuggire dal carcere di Pavia dove scontava 30 anni: lo sterminatore di Cadrezzate prende altri 8 mesi

Affamato di denaro, sterminò la famiglia a fucilate.
Difficile dimenticare il massacro di via Matteotti, nonostante siano trascorsi ventun anni. Anche perché Elia Del Grande il diritto all’oblio non se l’è ancora guadagnato. Ieri pomeriggio il Tribunale di Pavia lo ha condannato a otto mesi di reclusione per il tentativo di evasione progettato insieme alla compagna, Rossella Piras, a sua volta condannata a cinque mesi e dieci giorni.
Il loro avvocato, Eliana Zecca, valuterà se ricorrere in appello. Assolti invece Antonio Pitzalis, difeso dall’avvocato Rosario Carmelo Tripodi e Antonio Canale, assistito dall’avvocato Luigi Cirillo.
Il fatto, ha stabilito il giudice, non costituisce reato.
Fatos Hyseni - albanese accusato di un omicidio ad Ascoli Piceno - aveva già patteggiato all’epoca delle indagini.
L’IDEA DELL’EVASIONE
Del Grande, oggi quarantaquattrenne, e la sua compagna avevano pensato a tutto.
La fuga era prevista per l’8 dicembre del 2015 ma la Digos mandò a monte tutto, grazie alla soffiata di un tassista contattato da Piras con una precisa richiesta: farsi trovare all’alba vicino alla casa circondariale, caricare l’uomo a bordo e poi partire per Livorno.
Lì Elia avrebbe noleggiato un veicolo con conducente e, via mare, si sarebbe fatto portare all’aeroporto di Olbia. E poi si sarebbe dato alla latitanza.
All’autista precettato da Piras il servizio suonò piuttosto equivoco. Riferì i suoi dubbi a un amico ispettore di polizia, che subito attivò i suoi colleghi e gli agenti della penitenziaria.
Scoprirono così che il detenuto - condannato a trent’anni - aveva organizzato tutto grazie a un cellulare che gli aveva procurato l’albanese, dotato di una scheda sim intestata alla fidanzata.
L’AIUTO DELL’ALBANESE
Hyseni, a quanto pare, fornì a Del Grande anche i classici seghetti metallici con cui i carcerati, nell’immaginario collettivo, tranciano le sbarre. Ebbene, il quarantaquattrenne che la notte tra il 6 e il 7 gennaio 1998 ammazzò il padre Enea, la madre Alida Frosio e il fratello Enrico, con quegli arnesi era riuscito a scavare un varco di trenta centimetri tagliando la piastra metallica posta sulla parete della cella.
L’idea era quella di arrivare al caveau delle tubazioni e dei servizi, quindi ai condotti sotterranei dell’istituto.
Da lì avrebbe raggiunto con facilità l’area del cortile e il muro di cinta che intendeva scavalcare usando un altro dei metodi galeotti stereotipati: le lenzuola annodate, una corda di tessuto lunga undici metri su cui aveva agganciato un rampino artigianale.
Gli agenti della Polpen fecero un’ispezione proprio il giorno dell’Immacolata.
IL TELEFONINO NEL WC
Quando il detenuto li vide arrivare provò a sbarazzarsi del telefono clandestino buttandolo nel water. Ma il sistema fognario, che in carcere a Pavia funziona un po’ come un circuito chiuso, consentì agli investigatori di recuperarlo e di ricostruire così i suoi contatti.
Secondo l’iniziale prospettazione accusatoria, Canale e Pitzalis avrebbero collaborato alla realizzazione dell’evasione. Il primo mettendo a disposizione di Hyseni il cellulare sequestrato dai poliziotti, l’altro si sarebbe invece prestato a trasportare l’evaso da Livorno a Olbia.
«Ma il mio assistito non ha mai percepito denaro, non ci sono tracce di accordi, di tutta questa vicenda non sapeva nulla e l’abbiamo dimostrato», commenta l’avvocato del foro di Pavia, Tripodi.
QUEL 7 GENNAIO 1998
Elia Del Grande sconvolse la placidità del Lago di Monate nella nebbiosa Epifania del 1998.
Di sera era uscito a cena con mamma, papà e fratello, tutti impegnati a mantenere florida la loro attività di panettieri.
Tutti tranne lui, che a dormire ci andava quando i suoi si alzavano per impastare la farina.
Tanto che l’allora ventiduenne era stato “spedito” a Santo Domingo per gestire un night club e dare senso alla sua esistenza disordinata, fatta di droga, ozio, compagnie discutibili, coltelli.
A tavola i genitori gli comunicarono l’intenzione di non mantenere più i suoi vizi, di non elargire più soldi a perdere. Firmarono così la loro sentenza di morte.
Il ragazzo rincasò nell’elegante villa a notte fonda e, col complice Pierangelo Cavalleri, imbracciò tre fucili, un automatico calibro 12, un calibro 8 e un calibro 36.
GLI OMICIDI, POI LA FUGA
Il padre Enea, sentendo strani rumori dal garage, scese in pigiama. Il figlio gli sparò due colpi al petto. Enrico, il fratello maggiore, si precipitò al piano terra pure lui, chiuse a chiave dall’interno la porta a vetri del garage per tentare di salvarsi ma Elia la frantumò con il calcio dell’automatico e fece fuoco ancora. Poi salì le scale, fino alla camera dove rimaneva la madre. Alida venne ritrovata riversa ai piedi del letto: era riuscita ad alzarsi e a indossare la vestaglia, voleva capire da dove provenissero gli spari e perché. Fu trucidata senza pietà.
Poi l’assassino fece la valigia e scappò con le armi di cui si liberò successivamente. Con un taxi si diresse all’aeroporto di Agno, a Lugano, pronto per godersi la vida loca a Santo Domingo. Venne arrestato dalla polizia cantonale al valico di Ponte Tresa. In primo grado incassò tre ergastoli, ridotti poi, grazie alle tesi sostenute dal compianto avvocato Ettore Maccapani, allora suo primo difensore di fiducia, a trent’anni in appello.
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