OMICIDIO HOTEL
«Sposo esasperato», bastano 14 anni
Le motivazioni della sentenza d’appello: tensione alle stelle in luna di miele
Una pena congrua, adeguata e ben calcolata quella di quattordici anni inflitti in primo grado a Park Dahe per l’omicidio della moglie Ann Jung Mee: lo hanno spiegato i giudici della corte d’assise d’appello nelle motivazioni della sentenza, depositate nei giorni scorsi.
Ammazzare il partner in viaggio di nozze non è un reato da punire con la prevalenza delle aggravanti sulle attenuanti generiche. Il delitto dell’hotel Ibis risale al 18 maggio del 2016, la coppia coreana era arrivata in Italia pochi giorni prima per trascorrere la luna di miele toccando le tappe turisticamente più tipiche:
Venezia, Milano, la Toscana.
Aan però rimase folgorata dalla bellezza della Penisola e in Corea, con il marito, non ci voleva più tornare. Non solo. Sia lei che Park avevano scoperto il gusto di bere fino a stordirsi, il che contribuì non poco alle tensioni. A parere dei giudici di secondo grado «l’evento omicidiario è stato l’epilogo di un conflitto protrattosi tra i coniugi per molte ore, che li ha visti porsi l’uno contro l’altro e divenire sempre più esacerbati, durante il quale hanno fatto entrambi abuso di sostanze alcoliche e tenuto comportamenti anomali».
Dunque, nelle motivazioni scritte dal presidente della corte Ivana Caputo, la ricostruzione delle ultime ore di vita della sposina - che tra l’altro soffriva di fobia sociale - si possono riassumere in pochi ma salienti momenti. Dopo ore di discussioni, intorno alle 19 Aan avrebbe sbattuto fuori dalla camera 122 il novello sposo che, sempre più furente, avrebbe iniziato a prendere a pugni la porta, gridando «apri figlia di cane» e richiamando l’attenzione di tutti gli ospiti dell’albergo, compresa quella della schermitrice coreana che si è rivelata essere la teste chiave del processo. Dopo una rapida cena, condita dall’ennesima litigata, i due tornarono in stanza.
Da quel momento i vicini udirono il piagnucolio della donna, una nenia costante e lamentosa mentre sboconcellava un pezzo di pizza, accanto alla finestra, coperta da un piumino. «Park aveva ormai smesso di insultare la donna e reagì al pianto di questa - considerati i rumori che si sentivano - con bottiglie e manate contro le pareti, come sfogo della sua irritazione e della progressiva esasperazione», si legge nella sentenza. «Con il passare del tempo il dolo di impeto lo ha portato a rivolgersi contro Aan, che infatti improvvisamente ha smesso di piangere e ha invocato aiuto con forza, evidentemente impaurita» dall’incedere aggressivo di Park. A quel punto la vittima potrebbe aver perso l’equilibrio o cercato una via di fuga, oppure potrebbe essere stata spintonata dall’imputato. Poco cambia, perché la testimone cardine vide la coreana aggrappata alla sbarra esterna al davanzale, con le gambe ciondolanti nel vuoto. E vide soprattutto le braccia e le mani del marito che la spingeva di sotto.
Gli avvocati Guido Camera e Daniela Quatraro hanno sempre lottato per ribaltare la testimonianza dell’atleta coreana e per dimostrare altre dinamiche possibili, conteplando anche l’ipotesi del suicidio. Ma a parere della prima sezione penale della corte d’appello «non ci sono dubbi sulla responsabilità di Park».
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