GALLARATE IN LUTTO
Carù, la vita rock dell’uomo uscito da un western
Nel 2014 “The Guardian” aveva inserito il suo negozio di dischi tra i dieci migliori al mondo

Come lui nessuno mai. Nel 2014 The Guardian aveva inserito il negozio di Paolo Carù tra i dieci migliori al mondo. Da noi la cosa era nota sin dagli anni Settanta del secolo precedente. In Italia lo sapevano tutti, concorrenti compresi, consapevoli che se il loro fatturato era superiore a quello del collega accadeva perché, al contrario di lui, vendevano di tutto.
Paolo Carù no. Meglio qualche disco in meno, ma di qualità. Considerava la musica non un modo per vivere, ma la vita stessa. In particolare certo rock dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra. Primo a comprendere l’importanza dei dischi di importazione, rappresentava da mezzo secolo un punto di riferimento autorevole. Anche, per citare qualche nome, per Gene Gnocchi e per Giacomo Poretti che lo volle guida musicale per “La leggenda di Al, John e Jack”. Laboratorio di note e di idee il suo negozio, capace di generare due riviste quali Il Mucchio selvaggio e poi Buscadero, entrambe con titoli ripresi da film di Sam Peckinpah.
Ne capiva anche di cinema, Carù. Suo regista preferito era John Ford, “Sentieri selvaggi” e “Un uomo tranquillo” i film più amati. Due i dischi da isola deserta: “Astral Weeks” di Van Morrison e “Highway 61 Revisited” di Bob Dylan.
Più cittadino del mondo che esterofilo, non disprezzava affatto gli artisti italiani, a patto che parlassero correntemente la lingua rock, scrivessero testi intelligenti e fossero persone serie. Caratteristiche riscontrate in Massimo Bubola e Massimo Priviero, sostenuti fieramente.
Organizzatore di concerti anche oltre il Record Store Day, viveva la musica in modo militante. Sembrava uscito da qualche western o dalla copertina di “Desperado” degli Eagles, si definiva poco espansivo, ma in realtà era ben più aperto di quanto volesse lasciasse apparire. Non a ogni genere però.
«Pomeriggio di un giorno di fine anni Settanta - ricorda Marino Lodi, varesino cresciuto a pane e vinile - negozio pieno, mentre ero intento a scartabellare fra gli espositori, entra un ragazzotto chiedendo “Mi dà l’ultimo di KC and the Sunshine Band?” Di colpo tutti muti e immobili come statue. Paolo, che era seduto, si alza con estrema calma, e, a braccia conserte, fissando l’uomo sbagliato nel posto sbagliato sillaba lentamente “Qui non teniamo discoteca”. Fantastico».
Integralista? Semplicemente con una sua etica, merce sempre più rara. Un finto burbero che dispensava preziosi consigli. L’ultimo regalo pubblico lo ha fatto al Miv, agli spettatori di “The Song Remains the Same” ricordando che al concerto dei Led Zeppelin del 1970 a Montreux fu così entusiasta da lanciare in aria la giacca senza preoccuparsi di cosa, chiave dell’auto in primis, avesse in tasca. Un mito, più di quelli da palco.
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