CORONAVIRUS
Ha la polmonite, torna al lavoro
La testimonianza: esame negativo, ma un mese dopo la febbre: «Così non risulti Covid»

Avvisata di un contatto Covid avuto per lavoro, si ammala di polmonite bilaterale interstiziale ma deve penare per ottenere un tampone. Quando, dopo oltre un mese, glielo fanno, è negativo. Così non glielo ripetono, perché si pensa non sia coronavirus. Ma sorge il problema di un rientro al lavoro: è evidente il contagio, ma nessun test ne fornisce la certezza, così il rischio, adesso, lo potrebbero correre altri.
Rientrare nei luoghi in cui si svolge la propria occupazione dopo avere avuto lievi o pesanti sintomi attribuibili a coronavirus è la preoccupazione di lavoratori e aziende. Se i test si potranno fare in laboratori privati, si dovrà pagare per avere una informazione che dovrebbe essere garantita dalla sanità a tutela di altri, per preservarli dal contagio. Per ora, si resta in attesa delle decisioni politiche, ma resta un problema: se fai privatamente il sierologico e risulti positivo, dovresti fare un tampone. Ma chi te lo prescrive? E chi te lo fa?
La storia di Ilaria, nome di fantasia perché lei ci ha chiesto l’anonimato, parte dalla provincia di Varese. «Quanto successo a me - dice - sarà successo ad altri, magari a chi è meno combattivo. A metà marzo, ricevo una lettera dalla Medicina del lavoro dell’azienda in cui sono assunta. Mi dicono che ho avuto contatto con una persona che si è ammalata di Covid. Il 22 marzo inizio a stare male: dolore al petto, astenia pazzesca, vado al pronto soccorso e mi rimandano a domicilio. Il 31 la febbre mi sale a 38 mentre sono al lavoro e mi fanno andare a casa. Il primo aprile chiamo la mia dottoressa di base: dice di mettermi in isolamento, idem per mio figlio con cui vivo in 60 metri quadrati con un solo bagno».
Per precauzione, Ilaria sta lontana da tutti. Il figlio le porta il cibo alla porta. Il medico le prescrive due antibiotici diversi e sempre il Plaquenil, il farmaco contro l’artrosi in uso per i Covid dopo la sperimentazione di Napoli. «Non mi fanno il tampone e mi danno medicinali in dosi da cavallo», racconta la donna.
Non mangia, vomita, è spaventata. Ats non si fa viva. Dopo 14 giorni è Ilaria a chiamare il dottore, che le aveva prescritto una radiografia al torace: «Non mi reggevo in piedi, non ero riuscita a farla». Glielo dico e lei risponde: «Per me può andare anche al lavoro, perché a morire sono i medici». «Un bel trattamento», commenta Ilaria.
Quando riesce a fare la radiografia, il tecnico nota focolai nei polmoni. Prescrivono una Tac in urgenza. «Capisco che vedono qualcosa di brutto, ma dicono che me lo comunicherà il mio medico. Siamo al 18 aprile. La dottoressa non mi segnala nulla, non riusciva ad aprire il programma. Assurdo».
Il 21 aprile l’esito: polmonite interstiziale con focolai multipli bilaterali. Il medico suggerisce un immediato passaggio al pronto soccorso: «Prendo la valigia, vado da sola in macchina. Mi fanno il tampone per il Covid, saturo a 94-95. I giorni precedenti l’ossigeno era sceso a 89. L’esito è negativo, ma la polmonite c’è. Mi danno cortisone, Plaquenil ed eparina nella pancia. Fino al 30 aprile. Per i malati Covid servono due tamponi negativi in 24 ore per tornare al lavoro. Non mi fanno il secondo perché non mi ritengono malata di coronavirus: ma qualcuno mi vuole dire se posso smettere di usare candeggina su maniglie e tutto quanto?».
Serve una riabilitazione polmonare. Fare una visita diventa complicato per paura di contagi, eppure il medico di base pensa a un ritorno al lavoro. Non viene concesso nemmeno un test sierologico per capirci qualcosa. «Ho diritto di sapere se ho avuto o no il Covid, è assurdo», conclude Ilaria. Un tampone è fissato il 13 maggio. Resta in dubbio la possibilità di chiedere l’infortunio al lavoro: «La Medicina del lavoro dice che ho avuto contatti Covid e poi rilancia dicendo che sono negativa quindi non ho Covid. Pazzesco!».
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