TEATRO
Don Alberto Dell’Orto: 50 anni da protagonista
Il sacerdote festeggia le «nozze d’oro» con il Teatro delle Arti di Gallarate, una sala dell’oratorio che sotto la sua guida illuminata ha accolto i più bei nomi della prosa italiana
Un teatro che compie 50 anni fa notizia, soprattutto in provincia di Varese dove i teatri siamo abituati a vederli chiudere o a sognarli. Ma il Teatro delle Arti di Gallarate non è mai stato come gli altri: è una sala parrocchiale che è gestita come se fosse il Piccolo di Milano, cioè bene, con qualità, competenza e passione.
Il protagonista di questa storia unica in Italia è don Alberto Dell’Orto, 74 anni. Originario di Giussano (discendente diretto di Alberto, scherza), è arrivato a Gallarate il 27 luglio 1964, un mese dopo essere stato ordinato sacerdote: aveva 24 anni ed era stato assegnato come assistente al centro della gioventù della parrocchia di santa Maria Assunta, nel cuore della città. Un anno prima, il 26 maggio 1963, proprio qui con «La damigella di Bard» di Salvator Gotta, interpretata da Emma Gramatica, si inaugurava una sala cinematografica e teatrale molto ambiziosa, con circa 500 posti, progettata da quattro architetti dello Studio C+3S su commissione dell’illuminato prevosto Lodovico Gianazza. Al quale si deve la prima scommessa di questa storia: voleva un teatro per tutta la città, non una sala per la compagnia dell’oratorio (cosa normale per quei tempi), e infatti il palcoscenico avrebbe dovuto essere anche più grande di quel che è, se il Comune non avesse temuto il confronto con il suo teatro Condominio (che sarebbe diventato cinema, poi chiuso, risorto, assunto al cielo e che è ora in prognosi riservata).
Nel 1967 nacque il centro culturale Teatro delle Arti e al giovane don Alberto venne dato ufficialmente l’incarico di fare una stagione teatrale per la sala, che in quei primi tre anni aveva avuto una programmazione al di sotto delle sue possibilità. E lui ci si mise d’impegno: cominciò ad andare a Milano a vedere gli spettacoli, cominciò a contattare personalmente le compagnie per invitarle a Gallarate e, soprattutto, dispose sempre di un budget per soddisfare il lavoro degli attori, che per lo più ai tempi venivano pagati a percentuale sull’incasso. Il primo spettacolo scelto dal sacerdote fu «La dodicesima notte» di Shakespeare con Ernesto Calindri. In breve le Arti entrarono nelle tournée delle grandi compagnie e fino agli anni Settanta furono l’unica sala della provincia di Varese ad avere una stagione teatrale.
E ora, nel 2014, per essere precisi si festeggiano i 51 anni dall’inaugurazione delle Arti, i 50 anni dall’arrivo del sacerdote a Gallarate, i 47 della sua direzione artistica.
Ma non di solo teatro è vissuto don Alberto. Se fino al 1984 è stato al centro della gioventù accanto alle Arti, in seguito ha ricoperto incarichi per la Caritas di Varese e di Milano e nel 1989 è stato nominato parroco a Sciaré, dove risiede anche ora che le anime di cui si deve occupare, secondo il nuovo ordinamento delle comunità pastorali, sono in tutte le chiese che fanno capo alla parrocchia di San Cristoforo. Celebra la messa, i funerali, i battesimi, le comunioni e questa primavera anche le cresime: «Il vescovo lo ha concesso a chi ha compiuto 50 anni di sacerdozio. Sono fra poco, mi raccomando: non fatemi fare brutta figura con queste foto, non sono un attore». Così ci dice quando lo costringiamo a posare per il nostro fotografo, in una mattina in cui il teatro risplende di sole e lui arriva all’appuntamento in bicicletta, come sempre: è la sua 42esima, le precedenti gliene hanno rubate tutte, e la signora delle pulizie insiste perché la metta al riparo...
Don Alberto, ci faccia un po di nomi: chi è stato qui?«Tutti i grandi attori del teatro classico e registi di qualità: Giancarlo Sbragia e tutti quelli della compagnia degli Associati sono venuti spesso, Tino Buazzelli, Peppino De Filippo, Lina Volonghi, Paolo Stoppa, Glauco Mauri, Gabriele Lavia, Valeria Moriconi, Tino Carraro, Gigi Proietti».
E i registi?«Abbiamo avuto molti spettacoli di Strehler e poi anche di Luca Ronconi, e una bella regia teatrale di Luchino Visconti, L’Inserzione con Adriana Asti e una e Mariangela Melato giovanissima. La cosa curiosa è che la gente entra a teatro, vede la locandina e ancora oggi dice: questo spettacolo non me lo devo perdere, senza notare la data, 30 aprile 1969».
La Melato è tornata tante volte a Gallarate. «Sì, e direi sicuramente che la sua Medea, nel 1987, è stato uno degli spettacoli più intensi, belli e significativi che sono andati in scena qui». C’è stato anche Vittorio Gassman, cui ora è dedicato l’altro teatro di Gallarate, il Condominio. «Gassman qui nel 1984 fece Non essere, lo spettacolo che aveva preparato per l’apertura delle Olimpiadi di Los Angeles, dove recitò in inglese».
Ma qual è il suo segreto, come ha fatto a tenere il livello così alto?«Ho sempre avuto rapporti diretti con le compagnie, non mi sono mai affidato ad agenzie che organizzano le tournée: io andavo e vado di persona a vedere gli spettacoli, una decina di volte all’anno e tutte le sere durante i miei dieci giorni di vacanza a Sanremo».
Lei riesce a essere un manager del teatro e organizza spettacoli senza usare il telefonino: è un uomo antico (sorride): «Il telefonino ce l’ho ma non lo accendo mai: ogni anno mi riprometto di iniziare e pago 30 euro per non far scadere il numero. Ma in fondo non mi serve».
Per trent’anni ha insegnato religione al Liceo classico di Gallarate. Ai ragazzi cosa diceva: venite a messa o venite a teatro?«A messa, sempre! Però loro mi chiedevano che cosa c’era a teatro».
Il teatro l’ha mai insegnato? «Io no, ma per anni c’è stata anche una scuola di teatro qui alle Arti diretta da un attore del Teatro Stabile di Bolzano».
Non ha mai avuto la tentazione di pubblicizzare uno spettacolo teatrale dal pulpito, o al contrario, di fare una predica extra dal palcoscenico? In fondo sono due assemblee, una religiosa e una laica, quelle che lei presiede. «Mai, ho sempre distinto nettamente i miei due incarichi, anche se i punti in comune non mancano».
E quali sono i punti in comune?«Il valore dell’umanità: in fondo la chiesa predica perché l’uomo sia ricco di valori e di contenuti, nello stesso modo il teatro ci offre una ricchezza di stimoli e di argomenti. E a volte succede anche che riflettendo dopo uno spettacolo ci si possa accostare alla chiesa».
Qui Dario Fo è stato tre volte e ha recitato anche Bonifacio VIII, uno dei pezzi più significativi del «Mistero buffo», non proprio edificante però per l’immagine della chiesa. «Era il 1999 e Dario Fo fece Dedalo e Icaro, un testo che non è stato nemmeno pubblicato ed è andato in scena solo alla Biennale di Venezia e qui: quando chiamai Fo per invitarlo si stupì molto che io lo conoscessi. Nello spettacolo c’era anche Bonifacio VIII: io penso che il messaggio sia positivo, perché la figura di Gesù che ne esce è molto popolare, è un Gesù buono, figlio di Dio».
Moni Ovadia ha debuttato a Gallarate con «Cabaret Yiddish», il suo spettacolo più importante, che parla di ebraismo. «Il suo modo di fare teatro fa pensare mentre fa divertire e ha il merito di far conoscere in Italia quel patrimonio immenso che è la cultura yiddish, della diaspora e dell’esilio».
La curia non ha mai interferito nelle sue scelte?«Mai, non ho mai avuto nessun problema».
Anche il cardinale Carlo Maria Martini, che poi ha terminato la sua vita proprio qui a Gallarate, ha avuto parole di elogio per lei. «Lo cito perché le sue parole mi fecero davvero piacere. Eravamo a Gazzada per un convegno culturale organizzato dalle Arti e lui, vedendo il manifesto, disse: queste cose la chiesa deve fare. Ci penso spesso».
L’unico strappo alla programmazione sempre laica che ha fatto è «Parola e mistero». «Parola è mistero è stata una bella intuizione: una piccola rassegna, che tornerà anche quest’estate, dedicata a testi che si confrontano con la parola biblica o comunque con parole di grande valenza che hanno contribuito a formare la civiltà occidentale: spettacoli di Carlo Rivolta e Vincenzo Cerami, testi di Claudel, padre Turoldo, Bernanòs, Luzi e anche del cardinale Martini».
C’è uno spettacolo cui è particolarmente legato? «Sì: Nel fondo (l’albergo dei poveri) del russo Maxim Gorky, andato in scena qui alle Arti con Rina Morelli e la regia di Giorgio Strehler. Nel monologo di Satin, che interpreta l’uomo, si dice: uo-mo uo-mo uo-mo uo-mo, bisogna rispettarlo l’uomo, evviva l’uomo, l’uomo è più su di uno stomaco pieno. Parole laiche che insegnano il rispetto per l’uomo che è al vertice dell’umanità».
C’è un’analogia tra la scrittura del Vangelo e la drammaturgia?«Molti testi drammatici sono ricchissimi di parola biblica, solo che gli insegnanti non se ne accorgono perché non la conoscono. Ad esempio in Shakespeare ci sono tanti riferimenti ai libri della Sapienza».
I suoi autori preferiti? «Shakesepare. E Goldoni: nelle sue commedie c’è una macchina teatrale insuperabile».
Non dimentichiamo il cinema, che è sempre stata l’attività principale delle Arti. «A ottobre facciamo la centesima edizione del cineforum, nelle prossime settimane passeremo all’impianto digitale».
Come festeggerete questi primi 50 anni?«Abbiamo iniziato con uno spettacolo della compagnia Carlo Colla e figli, una compagnia storica di marionette, ma il programma non è ancora definito: l’idea è di celebrare il passato ma, soprattutto, immaginare il futuro in un biennio di festeggiamenti che culminerà con Expo 2015 a Milano».
Come vede i prossimi 50 anni? «Mi farò da parte e per lasciare spazio a chi vorrà farsi avanti, i cicli della vita funzionano così. L’importante è che non manchi mai la qualità».
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