SARONNO
Eugenio Finardi: rimandato a marzo

Niente Concerto per Eugenio Finardi il 13 gennaio al teatro Giuditta Pasta. L’artista si è ammalato. Ma è solo una sospensione: lo spettacolo è rimandato al 24 marzo. Ecco il comunicato ufficiale giunto dal teatro: «A causa della forte influenza virale di stagione che ha colpito anche Eugenio Finardi, il concerto 40 anni di Musica Ribelle è rimandato. Lo spettacolo è riprogrammato per il 24 marzo, chi fosse già in possesso del biglietto potrà accedere alla sala nella nuova data senza doverlo convertire in un nuovo tagliando. Per rimborsi prendere contatti con il teatro Giuditta Pasta entro il 14 gennaio: 02.96701990 oppure 02.96702127; mail biglietteria@teatrogiudittapasta.it.
Di seguito, l’intervista a Finardi uscita il 13 gennaio su «Lombardia oggi».
Una vecchia foto, dei nastri originali degli anni ‘70 ed Eugenio Finardi, italo-americano nato a Milano nel 1962, ha capito che era il momento di «40 anni di musica ribelle», un cofanetto che raccoglie 5 storici dischi usciti fra il 1975 e il 1979 con l’etichetta Cramps, poi ripresi da Universal Music: «Non gettate alcun oggetto dai finestrini», «Sugo», «Diesel», «Blitz» e «Roccando Rollando», tutti rimasterizzati dai nastri originali per riprodurre con totale fedeltà il sound delle origini. E canzoni simbolo come «Musica ribelle», «Extraterrestre», «La Radio», «Voglio», «Diesel». Quel cofanetto, uscito a ottobre, è poi diventato un tour che celebra i 40 anni di «Sugo», album-manifesto del ’76, e che fa tappa al teatro Pasta di Saronno stasera, venerdì 13 gennaio. L’ultimo disco di Finardi era stato «Fibrillante» (2014), nato dopo l’asportazione della tiroide che gli faceva fibrillare il cuore (non era il «sacro fuoco dell’arte» a farlo stare male, come scherzava). Due matrimoni, tre figli di cui una disabile, una trentina di album dal 1975, l’anno di esordio in cui Fabrizio De André lo volle, poco più che ventenne, per aprire un suo concerto, un’amicizia fortissima con Demetrio Stratos, un tour in Cina lo scorso giugno e quei capelli lunghi che non taglia per scaramanzia.
Eugenio Finardi, va in scena di venerdì 13…
«Sono peggio i gatti neri! Scherzo, i capelli sono un fatto statistico: ogni volta che li taglio, succede qualcosa di brutto, anche se dovrei, ormai… Ma i pochi samurai che resistono li curo bene».
Prima volta a Saronno?
«In 43 anni ci sono già stato, ma non credo al teatro Pasta, piuttosto per qualche festa dell’Unità. Un mio cugino viveva lì perché lavorava all’Alfa. Tutta l’Italia è un’unica, grande città per me. Io vivo a nord di Milano, la zona prealpina-lombarda è come il cortile di casa».
La cover del disco è una foto di lei a 23 anni: com’è rivedersi oggi?
«Quel momento lo rivedo volentieri, ma sono abituato a rivedermi, col mio lavoro. Risentirmi, invece, è stato un fatto profondamente toccante. Ho ritrovato i nastri della sala di incisione, dove ci sono io che parlo, ero un ragazzo… Alla mia età, quando ci si guarda indietro, non c’è più quell’istantaneo riconoscimento, è come vedere il proprio figlio. Fa tenerezza, uno stupore per quello che si è riusciti a fare. Ho avuto delle intuizioni…».
Orgoglio e soddisfazione?
«Sì, ma per tutto il gruppo: eravamo un collettivo di lavoro. Noi ragionavamo come un’unica, grande anima. Suonavamo per la musica, non per emergere. Ci davamo grande spazio, anche io che ero il cantante lo lasciavo, è questo che rendeva grande quella musica. E infatti tanti miei musicisti hanno poi suonato con gente come Battisti o De André».
Il primo gennaio 1997 moriva Ivan Graziani, sono passati vent’anni. Parteciperà anche lei al festival Pigro a Teramo che ogni anno raduna i suoi fans?
«Stavolta no. Ma sono molto amico della moglie di Ivan e ho sposato Patrizia Convertino, vedova di Mario, il grafico che realizzò la cover di Pigro. Patrizia fa tutte le mie cover. Ivan era generoso, allegro e molto profondo: non so perché l’Italia ricordi più Rino Gaetano di lui, forse ama più il trash che la musica di qualità».
Un mese prima di «Musica ribelle - 40 anni dopo» (28 ottobre 2016), è uscito il «Dizionario illustrato dei giovani merda» di Amleto Da Silva, che parla di giovani che ascoltano «musica di merda»: non c’è nulla che valga la pena?
«No, certo, però è un momento in cui c’è poco e poco originale. Ho un’età per cui ho smesso di seguire le mode e di italiano ascolto quello che ascolta mia figlia di 17 anni. Mi piacciono I Ministri e Lo Stato Sociale, che non la mandano a dire. Roba indipendente, del resto io sono sempre stato un outsider. Ma preferisco la musica straniera».
Il primo contratto lo ha firmato a 20 anni con la Numero Uno di Mogol-Battisti, diretta da Mara Maionchi: che effetto le fa vederla a un programma come «X-Factor»?
«È come vedere mia zia: Mara è uguale agli anni ‘70, è come Mick Jagger, non invecchia mai. Ti fa capire che il tempo passa per te».
I talent sono una opportunità?
«No, perché in quanto programma tv non ti permette di essere te stesso. Io non lo avrei mai vinto, nemmeno Battisti. Fa parte dell’oggi, ma ci sono anche altre vie: uno bravo davvero è Ed Sheeran, oppure Hozier, e non sono passati dai talent».
Nell’ultimo discorso da first lady, Michelle Obama invita i giovani a non avere paura. La lotta contro la paura era un pallino di Zygmunt Bauman, il sociologo polacco appena morto. Lei cantava «Paura del domani» nel ‘76, nello stesso album «Sugo» in cui «Musica ribelle» invitava a «mollare le menate e mettersi a lottare». Dove hanno fallito le generazioni che sono venute dopo?
«I giovani d’oggi si sentono impotenti, si fidanzano a 17 anni ed è già per sempre. Sperimentano poco. Ma su di loro pesano le colpe della mia generazione, che ha lasciato un mondo devastato, con poca speranza. La paura… Negli anni più belli della mia vita le Br ammazzavano la gente per strada, Elio si trovò davanti all’omicidio Alessandrini tornando dal liceo. La paura fa parte di una società vecchia: i vecchi hanno paura di cambiare, di cadere. A giugno sono stato in Cina, c’era un profumo di futuro straordinario e un grande senso di sicurezza».
Si stava meglio quando si stava peggio?
«Sono stato fra i primi extracomunitari, mezzo americano come ero. Ricordo il sentimento di diversità e il non riuscire a essere come gli altri. Oggi invece è più comune confrontarsi con gente diversa, questo mi fa stare meglio».
Sua madre era una cantante lirica statunitense, le sue prime canzoni sono scritte in inglese, perché non ha fatto carriera oltreoceano, dove nel frattempo si stava facendo la storia del rock mondiale?
«Sono stato allevato per essere un americano, ho fatto il liceo americano, poi sono andato là e non mi sono piaciuti. Hanno altri valori. Mi piace l’Italia anche per i suoi difetti: vuoi mettere parcheggiare in doppia fila senza rischiare il carcere? Siamo pazienti, educati, elastici».
Lei lo ritirerebbe un Nobel?
«Se me lo dessero sì, ma ammiro Dylan. Uno che si merita un Nobel può anche non ritirarlo. A Dylan ha sempre dato fastidio essere diventato così giovane un simbolo per la sua generazione, come a me, come a De André. Uno ne sente il peso… Come papa Francesco: si vede che preferirebbe essere altro».
Si può essere ribelli anche a 60 anni, restando credibili?
«Perché no? Ci si può finalmente concedere la follia. I vecchi hanno un grande privilegio, possono dire quello che vogliono, non devono badare più alla propria immagine, sono liberi a livello sociale. Non ho più la furia. Mi sono sempre sentito gli occhi addosso, adesso mi fa piacere se qualcuno mi riconosce. Ho deposto la competizione tra maschi. Competo solo con me stesso ora. Sono quello che sono».
© Riproduzione Riservata