LA TESTIMONIANZA
«Sono guarito, ma la mia vita è cambiata»
Fabio, 44 anni, ha potuto riabbracciare i figli dopo due mesi
Quanti giorni abbia passato in terapia intensiva Fabio Lomazzi, 44 anni, non se lo ricorda. Quindici? Venti? Ne ha perso il conto finché non ha iniziato a riprendersi. Sabato pomeriggio, 25 aprile, è stato dimesso dall’ospedale. A casa ad attenderlo i figli, ma anche il vicinato con gli striscioni fuori dalle finestre.
Ecco la sua testimonianza, la sua esperienza in ospedale, tra i malati di Covid-19.
«La mia vita è cambiata. Me ne sono reso conto quando prima di abbracciare i miei figli, che non vedevo da quasi due mesi, mi sono dovuto spogliare e fare una doccia. Ho aspettato un’ora prima di stringerli a me», racconta Fabio, marito di Katia Colombo, infermiera di terapia intensiva ma soprattutto volontaria del territorio che con la Croce Rossa e diverse associazioni ha insegnato a usare il defibrillatore automatico Dea a decine di persone con la supervisione di Guido Garzena direttore del Nue 112 di Varese.
«Mentre ero in ospedale in isolamento lontano da mia moglie e dai miei figli ho perso il conto dei giorni», spiega il quarantaquattrenne.
«Come mi sono ammalato, non lo so con certezza. Ipotizzo che sia tramite il lavoro di mia moglie che è infermiera di terapia intensiva, ma non voglio entrare nel merito». Eppure ci sarebbe molto da dire, rispetto al sacrificio delle famiglie di medici, infermieri e operatori sanitari in questo momento.
Racconta: «Sono passato dal reparto medicina alta intensità con sintomi meno gravi rispetto a molti altri. Ho trascorso notti insonni, per la febbre, per la stanchezza e per la disperazione. Qualche lacrima mi è scesa nei momenti di maggior sconforto, quando tra il corridoio sentivo dire il paziente della stanza B non ce l’ha fatta. La morte arriva - sospira - senza che ci possa essere niente da fare. Ed è così, semplicemente reale».
L’uomo racconta delle lunghissime giornate passate a pensare. Poca televisione, tanta stanchezza. Impossibile leggere a causa della debolezza e occhi che incrociavano le parole sul foglio. «Ho sperimentato la solitudine, nonostante gli sforzi del personale, assorto nella sua grave quotidianità lavorativa caotica, molto caotica. Della mia permanenza ricordo i momenti con il compagno di stanza, un signore solo con il suo casco da astronauta che poco prima di andare in terapia intensiva, con l’aiuto del medico, chiamava il suo unico amico. Non l’ho più rivisto, è rimasto solo un sacchetto rosso con le sue cose sulla sedia. Non ho avuto paura. Ma ho passato lunghissimi giorni in preda alla disperazione di vedere tanta sofferenza senza poter fare molto». Il racconto prosegue con un’altra riflessione: «Siamo tutti molto fragili. Io mentre ero ricoverato non ho mai voluto telefonare, l’impatto emotivo era troppo forte e non riuscivo ad affrontarlo. I messaggi mi hanno permesso di mantenere un distacco. So che le persone non hanno la dimensione di cosa stia accadendo», conclude Lomazzi, «e pensiamo «Non toccherà a me». Ma siamo tutti sulla stessa barca. E dobbiamo prenderci più cura della nostra salute cercando di stare meglio tutti».
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