LA CRISI
Fallimenti: non c'è tregua
Mille pratiche aperte a fine 2014 soltanto al Tribunale di Busto Arsizio. Il giudice Lualdi: situazione difficile ma concordati fallimentari in ascesa dopo la riforma

La crisi vista da una prospettiva diversa, quella che passa quotidianamente sul tavolo di un giudice fallimentare del Tribunale di Busto Arsizio. L’ha dipinta il giudice della sezione fallimentare Marco Lualdi, tra i relatori ieri a Villa Buttafava del convegno di Pwc e Unicredit su “Situazioni temporanee di crisi: come superarle”.
Una tematica complessa e intricata dove si mescolano storie di difficoltà e insolvenza ma anche complicazioni burocratiche e modifiche normative che non sempre migliorano le situazioni. Sono i numeri che tracciano la fotografia delle difficoltà delle imprese: «Nel 2014 abbiamo avevamo aperte circa mille procedure fallimentari e circa un centinaio di concordati preventivi, più una decina di accordi di ristrutturazione», ha spiegato il giudice. Rispetto ad altre realtà, il Tribunale di Busto non ha ancora registrato un calo delle domande anzi, si registra una continua crescita dal 2006 al 2015, sia per le domande di fallimento sia per quelle di concordato. In questo scenario, è curioso notare come sono cambiate le domande degli imprenditori in difficoltà, adeguandosi a una serie di modifiche normative.
LA RIVOLUZIONE COPERNICANA
Nel 2006 per esempio le istanze di fallimento sono state 450, mentre nel 2014, 420. Ad essere letteralmente esplose sono le domande di concordato preventivo, che se nel 2006 erano circa 10 all’anno, solo nel 2014 sono state 54. Questo perché nel 2006, oltre all’avvicinarsi della crisi economica è avvenuto un altro cambiamento che Lualdi ha descritto come «Rivoluzione copernicana», ovvero è cambiata la procedura. Prima era più rigida, costosa e difficile da approcciare per un’impresa. Ai tempi per esempio c’erano dei paletti: la percentuale di soddisfazione dei creditori era del 40% del credito nominale, serviva il voto della maggioranza dei creditori dell’impresa e infine anche il Tribunale era chiamato a dire la sua a prescindere dal voto dei creditori. Insomma, per vincere una crisi ci volevano soldi, e creditori e Tribunale dovevano dire la loro. Se il giudice alla fine di un concordato non credeva nel merito di un’impresa poteva non omologare un concordato. Oggi non è più così: la soglia di soddisfazione è stata eliminata ed è libera.
SODDISFATTI ANCHE CON POCO
«A volte tocca lo 0,55 per cento. Ed è un’ipotesi che si verifica» ha detto Lualdi. Questo significa che fatto un debito di 100 per esempio, un’impresa potrebbe proporre di risolverlo con 55 centesimi. Anche il voto non è più come prima: ora vige la regola del silenzio assenso, mentre al Tribunale spetta solo di vigilare sulla legalità dell’operazione ma non entra più in merito nel merito di un’impresa e non ha più margine di intervento sulla proposta concordataria. Tutte modifiche che hanno portato a un boom di questo tipo di richieste. L’altro lato della medaglia però, è che la soglia di soddisfazione non è sufficiente spesso, e a volte questa procedura può compromettere una filiera produttiva, soprattutto se a subirla è una piccola o media impresa, come la maggior parte in Italia. Si corre insomma il rischio di un effetto domino, dove se una media impresa si trova ad essere creditore di altre in concordato, rischia di essere la prossima a doverlo chiedere. Quello che manca è l’agire in tempo. «Il sistema funziona se il quadro di riferimento prevede una serie di sistemi di allerta che consentono di muoversi in fretta» conclude il giudice.
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