“MILANO CHIAMA”
Finardi: «Il Covid occasione per ritrovarsi più umani»
Il cantautore milanese torna nel Varesotto: concerto giovedì sera alla Viscontina di Somma Lombardo

Più che un urlo in stile Clash, una speranza: Milano Chiama, ultimo pezzo rock di Eugenio Finardi, spuntato fuori in piena pandemia, è la sintesi di un’affermazione esistenziale, oltreché musicale.
Milano Chiama, il Mondo risponde è l’incipit costruito sul riff acido di chitarra graffiato da Giuvazza Maggiore per testare l’elettrica che lo stesso Finardi aveva appena costruito. L’ennesima.
«Ne ho già preparate una quarantina, inclusa la mia: m’è costata 99 euro e spiccioli di pick-up ma sentissi che suono» dice soddisfatto mentre ne accorda un’altra, tirando tutti e 440 hertz d’un La che picchia nel telefono.
Milano Chiama ma anche Finardi Chiama - così s’intitola il concerto di giovedì sera a Somma Lombardo - perché dopo la catastrofe virale, chiamare significa riconoscersi vivi, oltreché sopravvissuti. E può essere il modo migliore per ricominciare a occuparci di noi stessi, degli altri e dell’ambiente in cui ci muoviamo in modo maldestro.
A proposito di noi: che fine ha fatto l’uomo che viveva in un abbaino?
«Stanno bene...».
Stanno?
«Sì, in realtà erano due sin dall’inizio. Uno è un sereno quasi settantenne, con una bella famiglia, tante storie da raccontare e persino con una guida spirituale. L’altro è un mio amico ricco. L’abbaino in realtà era il suo attico a San Siro. Era talmente fortunato che quella ricchezza è stata la sua rovina: non ha mai provato a guadagnarsi da vivere. Non lo sento da un po’».
E l’extraterrestre?
«Pensare che ci sia un deus ex machina che risolva tutti i casini ha sempre fatto comodo, in ogni epoca».
E questa che epoca è?
«Hai presente quell’elegante motto con cui i cinesi ti spediscono a quel paese? Suona così: ti auguro tempi interessanti. Ecco, i nostri sono tempi molto interessanti».
Ma di dèi neppure l’ombra, a parte qualche mortalissimo aspirante salvatore della patria.
«Già. E oltre a extraterrestri e dèi mancano pure gli arcangeli. Il fatto è che quello che siamo lo decidiamo noi. Certo, ognuno ha un destino, che oggi - dalla terrazza dei miei 69 anni - mi vien facile identificare col karma: quel che si semina, in passate vite o anche solo in questa, si raccoglie e bisogna imparare a essere consapevoli di quel che si semina se non si vogliono raccogliere schifezze».
Quindi l’uomo dell’abbaino ha imparato la lezione karmica?
«So solo che alla fine è rimasto a Milano che solo così si può arrivar lontano».
Che fa si autocita (Afghanistan, 1975)? Però ci ha preso con 46 anni d’anticipo...
«Le dirò: parlo tre lingue, ne parlicchio altrettante, ne capisco qualcuna in più, dialetti italici inclusi ma confesso di non essere mai stato a Est e tanto meno nel Medio Oriente. Mi sarebbe piaciuto, negli Anni Settanta, andare coi miei amici a Kabul, un po’ uno dei confini del Mondo, cioè dell’anima. Ma sono rimasto qui».
Eppure allora scriveva Tu predichi la pace della coscienza ma la tua pace è solo indifferenza. Pare un epitaffio ad hoc per certi esportatori di democrazia.
«Beh, per certi aspetti il Mondo cambia solo in apparenza. Però quello era un Afghanistan diverso: sempre frontiera dell’arcaico ma senza l’odio forsennato verso l’Occidente. Laggiù si andava per ritornare alla Natura...».
E per sperimentare la bontà del raccolto d’oppio...
«Anche. C’era una tensione morale: non era sballo fine a se stesso ma a cercarsi, a cercare un senso».
Il senso qual è?
«Comprendere i propri limiti, realizzare i propri sogni rispettando - per dirla con Franco Battiato - le regole assegnate a questa parte di universo, al nostro sistema solare e tenere ben presente che c’è un fato e che va accettato con pazienza. Ecco trovo che questi siano i tempi buoni per rimettersi a coltivare la pazienza».
Sin qui l’individuo. E la società?
«Milano Chiama lo dice chiaro: bisogna ritornare collettività nella libertà. Un po’ come lo siamo stati per forza nella pandemia. Questo è l’appello che Milano lancia al Mondo».
Sua madre Eloise era una cantante lirica statunitense: lei per metà è compaesano di Trump e Biden. Più facile essere collettività negli Usa o in Italia?
«In Italia, nella mia Dolce Italia. Anche mia sorella Marilù, che aveva scelto di vivere negli States, alla fine s’è arresa, trascinata da sua figlia violoncellista: col marito newyorkese ora abita a Firenze. Fine dei Finardi d’America. Eppoi non ci vuole molto a capire perché da questa parte dell’Atlantico si sta meglio: una donna straordinaria qual è Tina Turner diceva quando canto in Europa sono una star, quando canto in America sono una negra ».
Non per caso oggi Tina Turner è cittadina svizzera. Visto il riferimento ad Anna Mae Bullock, che cos’è per lei la musica?
«Il luogo in cui mi sono formato come essere vivente. Sono nato in uno strumento musicale: mia madre cantava. Forse è per questo che sono intonato senza fatica. Poi certo, convivendo con una madre musicista e mio padre Enzo, tecnico del suono, diciamo che è stato quasi automatico imparare la teoria. Però ho cominciato tardi col pianoforte: avevo già 11 anni e preferisco di gran lunga la chitarra».
Quando suona, capita che poi escano canzoni come Cadere e Sognare. Torniamo ai mali sociali: la disoccupazione.
«Questa è una canzone scritta per un operaio del Sulcis che durante un concerto ad Arzachena, che avevo regalato a quei lavoratori lasciati a casa, si mise a gridare Eugenio, aiutaci! Siamo disperati, aiutaci...Lo portarono via i suoi famigliari. Piangeva. E piango anch’io ogni volta che ci penso. Mi sono sentito impotente. Poi ho capito che il poco che posso fare è dargli voce».
Se l’è presa con gli ideologi cresciuti alla Bocconi e non l’ha mandata a dire: maiali senza il minimo ritegno. Come se ne esce?
«Conviene sedersi sulla riva del fiume, continuando a gridare lo sdegno: prima o poi cambierà e passeranno anche i loro cadaveri».
Cadere e Sognare sono verbi legati a volare. Lei è da tanto che ha imparato a volare: era il 1976.
«Quella è la canzone. Poi però il brevetto l’ho preso davvero. E ho imparato la poesia di leggi contrarie al nostro istinto: alla prima lezione ti dicono che la terra è dura. Però poi impari a capire quanto l’aria possa diventare un elemento cui affidarsi. Mio padre, un giorno, in montagna, mi mostrò una stella o forse era Venere. Mi disse: quell’astro è così lontano che non ci potremo mai arrivare. Eppure anche se duriamo così poco, riusciamo a capirlo. A farlo nostro. Anche questo è volare».
A Somma canterà Milano Chiama?
«No».
Perché?
«Perché ne abbiamo già parlato qui. Eppoi nella band che mi accompagna non ci sono coristi».
Problema ovviabile.
«Mannò. Faremo altro. Piuttosto avrei bisogno di un batterista e di un bassista che abbiano voglia di cazzeggiare in R&B, la sera, come si fa tra dopolavoristi: mi piacerebbe suonare i pezzi di Van Halen, dei Rolling Stones, Police. E anche Manic Depression di Jimi Hendrix».
Ritorniamo al bipolarismo dell’uomo nell’abbaino?
«Questo lo dice lei».
E riparte quel La.
IL CONCERTO
L’idea sarebbe piaciuta anche a Publio Virgilio Marone, per gli amici Virgilio quello dell’Eneide, delle Georgiche e delle Bucoliche: in un quadro per l’ appunto bucolico qual è quello della Viscontina, inserire un messaggio d’elevata qualità musicale è una formula gustosissima. Così al civico 10 di via al Ticino, prima la storica band dei Mandolin’ Brothers e poi Eugenio Finardi sono i due invitati d’onore della Gianfranco Skala Productions e di Aldo Beach Pedron.
Se la band fondata da Alessandro Jimmy Ragazzon è diventata nei decenni la prima formazione italiana del roots rock e lo scorso 17 settembre ha riscosso grande successo, Eugenio Finardi - che non ha bisogno di presentazioni - è atteso sul palco della Viscontina di Somma Lombardo giovedì 23 settembre alle ore 21. Per non perderselo, occorre prenotare allo 0331/256202 e presentarsi all’appuntamento, fissato per le 21, muniti di green pass.
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