DOLORE E RABBIA
Suicidio, finimondo e processo
Chiesto il rinvio a giudizio per la famiglia che a gennaio distrusse il Pronto soccorso

A terra, in un cortile interno al Sant’Antonio Abate, c’era il cadavere di Catello Di Martino. Dentro il pronto soccorso scene di disperazione folle, di quelle che non si possono dimenticare. «Quando vedi un figlio morto ti scatta un dolore indicibile. Soprattutto sapendo che si sarebbe potuto salvare», disse la madre del trentenne che si suicidò in ospedale. Era il 22 gennaio, a otto mesi di distanza dalla tragedia il pubblico ministero Susanna Molteni ha chiesto il rinvio a giudizio per i fratelli del ragazzo, Michele e Giovanni e per mamma Cira. I reati contestati sono resistenza a pubblico ufficiale, lesioni, danneggiamento, interruzione di pubblico servizio, minacce. Difesi dall’avvocato Corrado Viazzo, non possono negare i fatti contestati. Però una domanda se la pongono: «Che fine ha fatto la denuncia che avevamo presentato noi nei confronti dell’ospedale?». Di quel fascicolo si occupa il pubblico ministero Massimo De Filippo, il quale ha disposto accertamenti e verifiche sull’operato dei sanitari che quel giorno erano in servizio e sulla sicurezza della struttura.
Trattandosi di stabilire un’eventuale responsabilità nel decesso di un paziente, materia quindi oltremodo delicata, è chiaro che i tempi per giungere a una conclusione siano più lunghi. La famiglia Di Martino accusa il Sant’Antonio Abate di omicidio colposo dovuto a omessa vigilanza: da giorni Catello - che già era in cura al Cps - chiedeva una visita urgente in pronto soccorso, ma la priorità era sempre di qualcun altro, il suo momento non arrivava mai. E lui, psicologicamente labile, fremeva, era irrequieto, andava e veniva.
Nel primo pomeriggio di quel giorno i suoi famigliari chiesero spiegazioni al personale di turno ma proprio mentre lamentavano l’estenuante attesa, Catello sparì dalla sala d’aspetto. Qualche minuto più tardi lo trovarono sul piazzale: salito al quinto piano del Sant’Antonio Abate, aprì una porta antipanico e si lanciò nel vuoto. I fratelli e la madre vennero travolti da un impeto di dolore rabbioso non scevro da conseguenze. «È colpa vostra» iniziarono a urlare, Michele spaccò un telefono nell’ufficio del medico e prese a calci la porta del triage, determinato a raggiungere i dipendenti. Nel frattempo era arrivata la squadra volante. Giovanni scagliò una piantana e una carrozzina contro la vetrata dell’accettazione, spaccando tra l’altro la pedivella della carrozzina stessa. «Io vi ammazzo tutti, avete ucciso mio figlio», gridava Cira distruggendo il monitor di un computer. Intanto Giovanni scaraventava le panche in ferro e distruggeva tutto ciò che gli capitava a tiro minacciando «prendo una mitragliatrice e vi faccio tutti fuori, ve la faccio pagare a voi e ai vostri figli, vi stacco le teste. Qualcuno deve pagare, vado in galera per una causa giusta e mi porto la testa di questi bastardi». I poliziotti presero un sacco di botte, un’infermiera incassò uno schiaffo. Fino alle 19.30 le ambulanze in arrivo vennero dirottate altrove.
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