MUSICA
Ghost Records ha 15 anni. Facciamo festa

Belle intuizioni e tanto, ottimo lavoro di squadra. Sta qui, forse, la chiave del successo di Ghost Records, l’etichetta indipendente varesina che oggi, a 15 anni dalla nascita, si è ritagliata un piccolo, ma prestigioso spazio nel mondo della musica, anche internazionale. Uno spazio meritato, coltivato con passione, dosando la voglia di sperimentazione con la serenità di scelte più facili, ma sempre eleganti.
Fondata nel 2002 da Francesco Brezzi - che dal 2009 e anche co-proprietario del Twiggy di Varese - l’etichetta si è arricchita nel 2003 dell’intuito sonico di Giuseppe Marmina. È con i due soci che abbiamo chiacchierato in vista del 16 marzo, quando al Teatro del Popolo di Gallarate è in calendario Ghost Night, la festa di compleanno dell’etichetta cui partecipano Belize, Old Fashioned Lover Boy e Waxlife. «Niente di autocelebrativo - specifica Brezzi -. Solo la voglia di fare festa con gli amici. Mauro Ermanno Giovanardi ce l’ha proposto e abbiamo accettato con entusiasmo». La serata comincia alle 21 ed è dedicata ad Andrea Cajelli, fonico, amico, collaboratore, scomparso il 24 gennaio a 42 anni. Nella sua Sauna, lo studio di registrazione di Varano Borghi, hanno trovato luce e senso tanti dischi pubblicati da Ghost Records.
Brezzi, 15 anni di lavoro sempre in crescendo. Ci avrebbe scommesso?
Francesco: «No, ma una volta partito con quest’avventura, la voglia di andare avanti, di crescere e d’imparare è stata fortissima. Ho amato e amo quello che per me, da subito, è stato un lavoro a tempo pieno. Questo grazie a tutte le persone che mi sono state vicine in questi anni, agli artisti, a chi mi ha dato fiducia».
Qual era il suo obiettivo fondando Ghost Records? Nel tempo è cambiato?
Francesco: «Ho sempre amato la musica in modo viscerale, come esperienza sensoriale. È una componente fondamentale della mia esistenza, imprescindibile. Di certo ho trasceso l’obiettivo iniziale: scrivevo infatti di musica all’inizio, ho cominciato proprio su queste colonne, e ciò mi ha consentito di avvicinarmi ai musicisti, alle case discografiche, ai manager, ai produttori. Ho studiato molto sul campo: volevo infatti capire bene i meccanismi del music business e le diverse fasi che portano all’uscita di un disco, lo scouting in primis, che è il mio ambito preferito e anche la mia dote migliore. La produzione, la stampa, la distribuzione, la promozione e la commercializzazione sono tutti passi importanti per il successo di un artista e di una band e solo nel corso degli anni siamo stati in grado di padroneggiare tutta la filiera in modo soddisfacente. Da un po’ di anni teniamo una lezione al Master in comunicazione musicale alla Cattolica di Milano: ogni volta che torniamo lì mi accorgo di tutto il bagaglio di conoscenza che abbiamo acquisito in questi anni».
All’inizio fu «Ghost town: 13 songs from the lakes county».
Francesco: «L’obiettivo era dare risalto a una scena varesina in fermento, piena di ottime band, di voglia di emergere, di fare qualcosa di significativo. Il nostro primo album, una sorta di manifesto».
Guardandovi indietro, quali sono le scelte di cui andate più fieri e quelle che, invece, non rifareste?
Francesco: «Vado di fiero di tutto, ogni scelta è stata figlia di un percorso ragionato. Forse, sapendo a priori che sarebbe poi saltato il tour, non avrei pubblicato il disco dei Fiel Garvie. Ma col senno di poi non si va da nessuna parte».
Giuseppe Marmina: «Sono molto orgoglioso di aver pubblicato con Francesco album che hanno avuto un grande impatto emotivo sulla nostra vita. Non abbiamo mai pubblicato un disco che non ci piacesse, avremmo potuto farlo per ragioni commerciali, ma non saremmo mai riusciti a convivere con una scelta simile. Una cosa che non rifarei, però, è dare fiducia a collaboratori che poi si sono rivelati inaffidabili, soprattutto in ambito di organizzazione di concerti».
Qual è la vostra musica preferita? E cosa cercate in un artista?
Giuseppe: «Sono un grande appassionato di hip hop e di folk americano, in apparenza due generi contrastanti e con ben pochi elementi in comune. La musica deve emozionarmi, smuovere dentro qualcosa, un artista per piacermi deve essere in grado di arrivare dritto al mio cuore. Sono molto istintivo e mi bastano pochi secondi di ascolto per capire se un artista mi piacerà. È successo per esempio con una band del nostro roster, Il Triangolo. Li ascoltai durante un soundcheck prima della partecipazione al concorso Va Sul Palco. A metà soundcheck inviai a Francesco questo sms: dobbiamo pubblicare il disco del Triangolo a prescindere dall’esito del concorso!».
Quali artisti avete visto crescere in popolarità?
Giuseppe: «Dente è il caso più eclatante. Abbiamo firmato un contratto con lui quand’era ancora un cantautore semisconosciuto, che si spostava in treno con la sua chitarra per suonare in locali piccolissimi. Con noi è arrivato nella top 10 dei dischi più venduti in Italia e al concerto del Primo Maggio.
Su chi state scommettendo adesso?
Giuseppe: «Su diversi gruppi. I Belize, una band di Varese che si muove abilmente in territori al confine tra hip hop, pop e musica elettronica. I There Will Be Blood, di Samarate e Busto Arsizio, un fenomenale trio blues e con uno spettacolo dal vivo tra i più devastanti cui mi sia mai capitato di assistere. Poi Old Fashioned Lover Boy, un ragazzo napoletano trapiantato a Milano innamorato del folk americano e con una predilezione per le armonie sognanti. Infine Andrea Fornari, un cantautore torinese di stanza in Lussemburgo, il cui singolo 102, prodotto da Waxlife, il dj varesino Simone Lanza, ha totalizzato più di 230mila ascolti su Spotify».
Quanti album avete pubblicato?
Giuseppe: «Quarantanove. E lavorato con trentasei artisti, fra gruppi e singoli, tredici dei quali di Varese o provincia».
Adesso la scuderia quanti artisti conta?
Giuseppe: «Attualmente abbiamo otto artisti attivi: Andrea Fornari, Black Eyed Dog, Belize, Il Triangolo, There Will Be Blood, Dumbo Gets Mad, Old Fashioned Lover Boy e Barzin».
Francesco, a Varese è co-proprietario del Twiggy, uno dei pochi luoghi in cui si fa ancora musica dal vivo.
Francesco: Con Andrea Frattini e Riccardo Tranquillini condivido quest’avventura nata nel 2009 con Nicola Oldrini. Al Twiggy si fanno in media due concerti alla settimana, con band che arrivano da tutto il mondo. Gestisco direttamente la programmazione musicale, con l’aiuto di Riccardo per quanto riguarda il jazz e di Alessandro Zoccarato per il blues. Le soddisfazioni sono ancora parecchie, il Twiggy è ormai un punto d’incontro dove si mangia bene, si beve ottima birra (con due prodotti a marchio nostro) e soprattutto si ascolta musica di ogni tipo».
Vent’anni fa si suonava ovunque. Perché si è quasi smesso di farlo?
Francesco: «Per la musica dal vivo sussistono parecchie problematiche: limitazioni legate all’impatto acustico, in particolare, e anche alle normative che ineriscono all’intrattenimento, al fatto che si debba accostare per forza la musica a una turbativa della tranquillità nonostante le ingenti spese che i gestori devono affrontare per uniformarsi alle prescrizioni di legge. Da questo punto di vista Varese è una città scarsamente tollerante».
Come si potrebbe incentivare la musica dal vivo?
Francesco: «Bisognerebbe cambiare mentalità, in primis. Educare i cittadini, ma soprattutto il pubblico che la musica è arte, non solo intrattenimento. Che la musica è un lavoro per chi la porta in giro e per chi la propone. E che quindi non è un passatempo per sfaccendati, ma un mestiere che merita rispetto e attenzione. E, soprattutto, tutela».
Forse è cambiato anche il modo in cui i ragazzi si avvicinano alla musica?
Francesco: «È cambiato un concetto fondamentale, che ha modificato di conseguenza anche il modello di business musicale: si è passati dal concetto di possesso, l’acquisto di un Cd, un vinile o un mp3, a quello di accesso, lo streaming musicale, a una libreria praticamente infinita di brani. È cambiato quindi il modello di distribuzione, esiste meno approfondimento, si è depauperata l’opera del suo valore fisico a favore di quello virtuale».
La serata del 16 marzo a Gallarate è dedicata ad Andrea Cajelli, a Cajo.
Francesco: «Cajo era più di un amico, era un punto di riferimento. Abbiamo condiviso l’entusiasmo della nascita di un progetto comune, le difficoltà di portarlo avanti e di farlo diventare una professione, trasformando le nostre due realtà, Ghost e La Sauna, in due eccellenze del territorio, qualcosa di cui andare fieri e di cui beneficiare. Dedicare la serata a lui è stato naturale: il suo ricordo va tenuto in vita e deve essere d’esempio per le generazioni che verranno. La sua intelligenza, il suo acume, il suo essere umile e allo stesso tempo competente, la sua ironia e la sua infinità disponibilità sono state un bene prezioso non solo per gli amici e i musicisti, ma perché se non fosse stato per lui forse oggi non saremmo qui a raccontare questa storia meravigliosa».
Giuseppe: «Andrea ha registrato la maggior parte dei dischi che abbiamo pubblicato, ma soprattutto era un grande amico. Ghost Records è nata nello studio di registrazione di Andrea e Francesco l’ho conosciuto proprio alla Sauna. Non saremmo qui a parlare dei quindici anni di Ghost Records se non ci fosse stato Cajo».
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