LA TESTIMONIANZA
La nonna con le mani nuove
Dieci anni fa il trapianto bilaterale per Carla Mari: «Oggi posso accarezzare i miei nipoti»

«Ogni piccola carezza è un dono. È un dono poter sentire e toccare i miei nipotini Ginevra e Federico. Ogni singolo gesto è una conquista che mi regala una gioia indescrivibile. E dire che si tratta di traguardi un tempo inimmaginabili».
A parlare è Carla Mari, la gorlese che 10 anni fa ha subito il primo trapianto bilaterale delle mani all’ospedale San Gerardo di Monza. La prima al mondo ad aver subito questo tipo di intervento.
L’uso delle cellule staminali mesenchimali autologhe utilizzate nell’operazione (grazie a un’intuizione del professor Andrea Biondi) furono preparate nel laboratorio Verri e sono state utilizzate in più occasioni nell’arco di questi anni. Su Carla sembrano aver dato il loro positivo apporto, non avendo avuto episodi di rigetto e con una terapia di mantenimento mono farmaco sotto la soglia terapeutica.
«Tornassi indietro rifarei il trapianto perché questa operazione, che ha comportato rischi e sacrifici, mi ha dato tanto», racconta.
«Guardando indietro mi rendo conto che non sapevamo a cosa saremmo andati incontro: ma un giorno alla volta, senza darci limiti abbiamo raggiunto piccoli traguardi. E per ogni piccolo gesto, abbiamo esultato».
Soddisfatto è anche il direttore generale della Asst Monza, Mario Alparone: «Un successo per la sanità pubblica e un successo per la nostra azienda che oggi brinda insieme a Carla per il risultato, dando una speranza a chi è ancora in attesa di un trapianto da donatore».
La gorlese intanto spiega: «Non sono le mie mani, sono diverse nella fisicità e nella manualità. Ma i gesti necessari posso farli, mi arrangio. Penso che la questione più importante non sia legata a ciò che faccio ma a ciò che sento».
Mari infatti prima del trapianto aveva le protesi, che tutt’ora porta agli arti inferiori perché a causa di una malattia aveva subito l’amputazione di mani e piedi.
L’aspetto che mi rende più felice è avere la sensibilità, oltre all’autonomia. Posso essere a contatto con il resto del mondo: sentire la fisicità dei miei due nipoti che posso anche prendere in braccio, toccare il loro viso e dare un pizzicotto. E poi percepisco il caldo, il freddo, l’acqua. Forse sono piccole cose, ma per chi non poteva più averle sono l’aspetto più importante».
Così prosegue: «Dopo dieci anni abbiamo fatto il massimo e i risultati sono eccellenti. Posso mangiare da sola. Se devo fare le scaloppe, le cucino, per il risotto passo il mestolo a mio marito».
Guardando alla vita precedente e alle sue passioni, racconta: «Purtroppo non riesco a prendere in mano l’ago e ricamare. Era un’attività che amavo. Ma posso anche farne a meno. Ripeto: non mi focalizzo sulla dimensione del fare. Di certo non posso prendere un martello e fare lavori di fatica o di precisione. Ma non ho dolori e la mobilità raggiunta è stabile».
La gorlese conclude: «Queste mani sono un dono che mi ha dato una vita migliore. Durante il lockdown ho anche impastato pane, focaccia e biscotti».
© Riproduzione Riservata