NATALE A TAVOLA
Grazioli: vi racconto il mio panettone

In panificio, Massimo Grazioli, si può dire che ci è nato e cresciuto perché è sempre stata l’attività di famiglia. Il babbo, non appena lui ha terminato le scuole medie, ha comprato un locale per regalargli un futuro. Ma la storia, si sa non va sempre come si vuole. Alla scomparsa del padre, Grazioli non si è più ritrovato in quella che fino ad allora è stata la panificazione tradizionale (e che ora addirittura rinnega) tanto da pensare di abbandonare il lavoro. Ma dopo essersi guardato intorno e aver conosciuto un nuovo modo di lavorare e una nuova filosofia, quella del «Buono pulito e giusto» di Slow Food, ha capito che il panettiere era il suo mestiere e da quella crisi ne è uscito con una grande voglia di fare bene. Da allora Grazioli, panettiere di Legnano, corre come una locomotiva sui binari dei prodotti di qualità. I suoi pani sono famosi in tutta la provincia e non solo, e il suo panettone va a ruba.
Ci faccia capire Grazioli,com’è che il suo panettone è così gettonato?
«Per lui sono stato, diciamo, in analisi due anni (e ride n.d.r.). Non mi veniva mai bene e questa cosa mi faceva diventare matto. Volevo fare il panettone e volevo che fosse molto buono. C’è voluto del tempo. Il primo passaggio è stata la scelta della materie prime, tutte a lungo ricercate e di ottima qualità. E poi, per essere davvero buono, deve essere grasso. Il mio contiene 8 chili di burro per 11 chili di farina. Insomma, un signor panettone pesante, non voluminoso, ma bello pieno. Perché a me piace così».
Come si realizza un panettone?
«Ci vogliono due giorni di lavoro, amore e attenzione. Per prima cosa, e fondamentale, si comincia preparando il lievito madre come se dovesse affrontare una finale di Champions League. Il lievito è come una donna, è molto particolare e bisogna giocare di precisione ed equilibrio. Bisogna portarlo al massimo del volume e al massimo della sua capacità fermentativa. Si va di rinfresco e rimpasto a cui poi segue l’ambientamento e la cottura per sei o sette ore. L’impasto deve rigorosamente stare al rovescio: il burro in alta percentuale, raggiungendo alte temperature si scioglie e così facendo potrebbe far collassare il prodotto. Lasciandolo a testa in giù, può anche cedere verso il basso, anzi va meglio perché gli dona una forma allungata. Quando poi la temperatura scende sotto i 27-28 gradi, allora si può rigirare».
È una lavorazione lunga e complicata, non mi sembra replicabile nella cucina di casa propria o sbaglio?
«Domenica avevo 25 allieve qui in panificio a cui ho rivolto la solita domanda con cui comincio la lezione: “Perché sei qui?». Tante le risposte, ma l’unica corretta è perché si ha una temperatura di 36 gradi centigradi e si sta bene. Semplice. E semplice è anche avere a che fare con il lievito madre, l’artefice di un buon panettone. Occorrono poche e facili regole per trattarlo bene e farlo stare bene. Altrimenti, proprio come noi quando abbiamo la febbre, non lavora. Non lasciatevi ingannare dalle storie che vi dicono sul lievito madre: non è una schiavitù, occorrono 5 minuti a settimana. Ricordatevi che il segreto di un buon panettone sta tutto qui».
Una curiosità, ma a lei il panettone riesce sempre bene?
«Il discorso del “sempre bene” è complicato. A me non interessa che sia uno uguale all’altro, ma che sia sempre buono. Pochi giorni fa abbiamo provato a fare una piccola modifica alla nostra base standard: abbiamo utilizzato una madre molto acida e il risultato non sono stati dei panettoni, ma delle bisciole. Il panettone è un gioco di equilibri, ma ogni impastata è diversa dall’altra».
Cosa conta davvero nella realizzazione di un prodotto davvero buono?
«La scelta degli ingredienti è fondamentale. E la ricerca del buono costa. Spendo tanto per il mio panettone, ma ogni componente è di prima qualità: la farina arriva da un molino di Abbiategrasso, nel Parco Ticino, le uova da un allevamento di galline a terra, i canditi non sono quelli con lo zucchero e poi passati in forno ma sono passati nel miele che dona loro morbidezza e la caratteristica di sciogliersi in bocca come caramelline, poi lo zucchero, tanto, e l’aroma prodotto da me facendo bollire il miele con una bacca di vaniglia e le buccia d’arancia, mentre se faccio la base classica metto tre parti d’uvetta e una parte di scorza d’arancia. Solo il burro non è italiano, adoro e uso quello salato della Normandia. Il risultato è un prodotto soffice, buono e pieno».
Qual è il segreto per una riuscita ottima?
«Le posso dire il mio, che è anche una mia fissazione: il lievito madre. Tutto dipende da lui. Il mio ha 16 anni e lo vizio nutrendolo ad acqua frizzante, precisamente Perrier perché è la più basica di tutte. Il lievito madre ha un’acidità molto simile a quella dei succhi gastrici del nostro stomaco. Se facciamo lavorare il lievito per produrre un panettone, del pane o la pizza, ingeriamo un prodotto predigerito che può solo farci bene e non farci gonfiare».
Oltre agli ingredienti, cosa giustifica il costo tanto elevato di un panettone artigianale contro quello prodotto industrialmente?
«La professionalità di chi lo realizza si paga. Il panettone del grande maestro Iginio Massari può piacere o non piacere, ma la sua professionalità e il tocco personale sono strepitosi. Va bene essere bravi pasticcieri e avere degli ingredienti pazzeschi, ma quello che non deve mai mancare è l’amore per quello che si fa e soprattutto il lievito madre».
Quanti tipi di panettone produce?
«Fino a poto tempo fa ne facevo davvero tanti, quest’anno li ho ridotti a quattro, quello classico, al cioccolato, alle fragole e senza canditi. Ma l’anno prossimo, basta, ho in mente di farne solo due».
È vero che per capire se un panettone è buono o no si deve guardare se ha le «bolle» al suo interno?
«Su questa teoria dei buchi ci sono due diverse scuole di pensiero. Personalmente io sposo la linea del panettone dalla pasta compatta, più simile al pandoro, per intenderci. Più è compatto, più è soffice. Per contro, se la pasta ha molti buchi vuol dire che c’è più aria e di conseguenza asciuga e si secca prima. Ma non è vero invece che, se ci sono le bolle, il prodotto è più leggero».
Veniamo ai canditi: tanti o pochi?
«Io sono grasso e realizzo la versione ricca: se la dose media in un panettone si aggira sul 30%, io vado tranquillamente sul 40%. Il mio panettone deve essere grasso e il candito si deve sentire. Poi ci sono le versioni light con l’olio d’oliva, e vanno benissimo, ma Natale è Natale, per la dieta c’è sempre tempo. Io sposo la filosofia di Moser: a mangiar patate non si vince il giro d’Italia».
Può il consumatore leggendo l’etichetta scegliere il panettone artigianale più sano?
«Ad oggi no. Il problema è che non c’è una chiara direttiva sull’etichetta. Oggigiorno chi produce un panettone con un semilavorato non è obbligato a dichiararlo. Sull’etichetta si trovano scritti gli ingredienti in ordine di quantità, ma ad esempio non è dato sapere le uova da dove arrivano, se il lievito madre è prodotto in proprio o acquistato. Insomma, il consumatore ha diritto di sapere e scegliere di conseguenza in base al suo credo».
C’è un modo per conservare il dolce artigianale una volta a casa?
«Sono sincero, per quanto riguarda il mio che contiene ingredienti naturali, suggerisco al massimo 20.25 giorni. Per questa durata si ha un’ottima resa al palato e vale anche il prezzo. Detto questo, il panettone lo puoi conservare dove e per quanto tempo vuoi, ma un giorno prima di consumarlo va tenuto per forza in cucina. Essendo composto per il 70% di burro, questo con il freddo si indurisce e non lo si riesce a gustare appieno. Per fare un esempio, se devo mangiare un panettone da un chilo, lo devo intiepidire in casa per una giornata».
E lei come lo mangia?
«Da solo o con un bicchiere di moscato. Salse e salsine le lascio per coprire lo scarso sapore dei panettoni mediocri. Se il panettone è buono, da solo è perfetto».
Cos’è per lei il panettone?
«Ad ogni sfornata è una liberazione. Riuscire a farlo bene è stato come quando ho raggiunto con tutti i miei chili di troppo la capanna Margherita alla fine di una strada di montagna ripidissima. Una sofferenza ma anche una gioia immensa».
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