L’INTERVISTA
Il primo passo di Fabio Ilacqua
«Torno cantautore con la benedizione di Guccini». Oggi il lancio su tutte le piattaforme

Un quartabuòno di sole trapassa la finestra e si conficca nella stufa a legna che scoppietta nello studio.
A Fogliaro l’agrodolce dell’Autunno varesino, quel misto di terra sudata e cielo pulito, lo si respira anche da qui, da questa stanza in cui il caos proverbiale dell’artista incontra l’aura dell’alchimista e tutto trova un ordine perfetto.
L’ampia biblioteca - «letta tutta» - fronteggia disegni, fotografie e a un disco di platino incorniciato e appoggiato a terra in attesa di più consona destinazione (quello delle Canzoni da intorto, scritte due anni or sono per Francesco Guccini) e quasi al centro della stanza campeggia una sedia a dondolo dell’Ikea con un poggiapiedi fatto a mano.
La scrivania le sta di fronte, circondata dai bigliettini amorevoli e dalle immagini sorridenti di una bimba dallo sguardo vivace e dai tratti fiabeschi. Lei è Camilla, la nipote di Fabio Ilacqua e nessuna parola o nota potrebbe descrivere l‘intesa che lega zio e nipote.
In questo studio, il cui pavimento d’assi di larice, posati e lamati da Fabio Ilacqua medesimo, avrebbe molto da raccontare se solo i passi potessero cantarsela, è stato concepito - dopo Ballata del dopocena del 2007 mai però pubblicato - anche l’ultimo lavoro del cantautore varesino che discograficamente parlato è il primo in assoluto. Non per caso s’intitola Passo_01 (oggi venerdì 8 novembre il lancio su tutte le piattaforme, giovedì 14 la presentazione al Germi di Milano), è un caleidoscopio visionario, sanguigno, terrifico eppure potente come un’improvvisa exstrasistole e se proprio se ne si dovesse spiegare la struttura - solo sfiorandola - bisognerebbe fare ricorso, tutt’insieme, all’idea dei Quadri di un’esposizione di Modest Petrovič Musorgskij, al progressive della PFM, alle tele di Mirò, al distillato del circo felliniano e alla poetica ermetica. Spiegare un disco, però, non è solo una violenza da guastafeste ma un atto di superbia. Così - magari ovinamente per gli epigoni di Riccardo Bertoncelli - lo definiremo solo «poetico, cioè spiazzante».
«In effetti si tratta di nove stanze distinte tra loro - così Ilacqua - ma legate dall’urgenza di potermi sentire finalmente libero di dire la mia. Se ciò è stato possibile lo devo a Dino Stewart, che è il managing director della BMG. È stato lui a convincermi a fare qualcosa di mio, pur sapendo che questo prodotto non è destinato a un pubblico di grandi palcoscenici e di moneta facile».
Un riconoscimento meritato dopo tanti successi dietro le quinte per grandi interpreti della canzone italiana, da Francesco Gabbani a Mina, da Loredana Bertè a Francesco Guccini, da Adriano Celentano a Ornella Vanoni, a tanti altri ancora. Che cosa l’ha spinta ad accettare l’invito di Dino Stewart?
«La stima umana prim’ancora che professionale, qualità rara. Eppoi mi si presentava un’esperienza diversa dal solito confezionamento d’abito sartoriale: tu cuci parole e musica insieme e altri portano in giro quell’abito. Stavolta ho scelto di mettermi in gioco di scrivere quel che mi appunto da una vita, di musicarlo e di arrangiarlo come volevo e poi di cantarlo. L’ho fatto passando da un tempo dispari a uno pari e da un’armonia all’altra, come se mi fossi infilato in un bosco e mi si fossero presentati all’improvviso paesaggi sonori come apparizioni. L’idea è stata scrivere un disco che si potesse non solo ascoltare ma sentire, persino vedere».
In Guccini non ha trovato solo il Maestrone di tanti ma soprattutto un collega con cui condividere lavori e pensieri. Che le ha detto di questo lavoro?
«È stato tra i primi ad ascoltarlo. Gli sono piaciuti sia la musica, sia i testi. E passare l’esame dei testi col Maestrone significa essere sulla buona strada».
A proposito di strada, ne ha fatta tanta da quel 2007 che l’ha vista primeggiare a Musicultura con La Città Giardino così vicina alle sonorità e al tema degli ultimi portati in primo piano da Fabrizio De André con la sua Città Vecchia. E il sapore cantautorale è più d’un retrogusto della poetica gucciniana o di quella di Faber.
«Li ho scoperti entrambi tardi, dopo i diciott’anni ma se percorro questa strada professionale lo devo anche alla loro ispirazione».
Non faccia il modesto. Non vorrà dire che basta l’ispirazione per scrivere brani come Il vino e i serpenti, ricreando atmosfere progressive e inchiodando stati d’animo con parole mai banali.
«Non sta a me giudicarmi, Anzi trovo che l’idea stessa del giudizio sottenda all’insicurezza, così come lo è la necessità di etichettare ogni cosa. La vita è un’esperienza sconfinata. I confini li mette chi ha il terrore della curiosità e dell’incontro con l’altro dal quale si esce sempre più ricchi. Lo insegnava mio cugino Natalino, a suo modo una maschera saggia, cui il pezzo è dedicato».
Risposta quasi salvifica al nichilismo imperante. A proposito, che ne pensa di questa deriva?
«Credo che il problema si quello dell’inversione dei ruoli tra umano e tecnologico: finché il primo utilizzava il secondo, si poteva parlare di progresso. Oggi siamo alla situazione contraria e il guaio è che questo si riflette anche nelle relazioni personali. Basta pensare all’uso del telefonino. Per questo mi ostino a non averne uno».
Tecnologia è anche Intelligenza Artificiale. Come vive quest’invasione di campo delle incombenze umane?
«La vivo col timore che a furia di sostituirsi alle funzioni umane, l’IA finirà con l’ampliare quel vuoto comunicativo che ha la forma della parola e il contenuto del pensiero. E l’uomo senza pensiero non è più umano».
Qual è il suo antidoto alla disumanizzazione?
«Fare. Occuparmi delle piccole cose, condividere il tempo con altre persone, disegnare e passare, appena posso, tempo con la mia nipotina che m’insegna quanto sia bello non smettere mai d’imparare e d’immaginare. Insomma, controbilanciare l’intelligenza artificiale, che potrebbe anche tornarci utile, con l’intelligenza pratica».
Come quella di costruire stanze di suoni e riempirle d’emozioni in forma di parola?
«Proprio così. Passo dopo passo. Tenendo sempre presente che il primo è uno in meno verso la meta e uno in più verso la consapevolezza di quel che siamo: esseri umani».
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