L’URGENZA
Medico varesino a Gaza: «Ho visto il volto del dolore»
Alberto Reggiori, chirurgo all’ospedale di Cittiglio, racconta l’esperienza nella Striscia: «Abbiamo operato persone arrivate da noi senza un braccio o una gamba»

«Gente senza un braccio, senza una gamba, arrivata da noi dopo medicazioni sommarie. Il volto concreto del dolore. Per questo motivo domande del tipo “Chi ha ragione? Chi ha torto? Da che parte stai?” mi danno fastidio, non centrano il problema. Non ho che una risposta: sto con chi soffre».
Da anni Alberto Reggiori è medico chirurgo all’Ospedale di Cittiglio, ma la lunga esperienza in Uganda negli anni Ottanta-Novanta, insieme alla moglie e alla numerosa famiglia allora appena costituita, gli hanno lasciato dentro un vuoto difficile da colmare. Per questo ha accettato la proposta della Fondazione Rava di Milano di trascorrere 18 giorni di gennaio sulla nave militare italiana Vulcano trasformata in ospedale per accogliere i feriti della Striscia di Gaza.
«Ho sempre avvertito il desiderio che la mia vita fosse utile. È una urgenza difficile da mettere a tacere, indipendente da me e di chi mi chiede di prendere posizione. Insomma sono partito». Offrire il proprio contributo, non soltanto professionale, per cercare di alleviare le sofferenze è uguale in ogni angolo del mondo ci sia gente messa alla prova, ma c’è una differenza sostanziale tra le conseguenze generate dalle malattie, dalla denutrizione, dalla miseria e quelle di un conflitto armato.
«La situazione di guerra decide tutto, chi può lasciare Gaza e chi no, chi dev’essere curato e chi deve solo sperare nel miracolo della guarigione. Quale sia il criterio con cui le autorità locali prendono questa decisione non sono riuscito a capirlo, ma è così. Sulla Vulcano ho visto arrivare una trentina di pazienti, tutti comunque civili, donne, bambini, ragazzi, nessun adulto maschio, forse perché hanno paura che scappino, non so. So soltanto che attraverso i mediatori linguistici ho ascoltato, con quattro medici italiani, storie drammatiche di persone rimaste ore sotto le macerie, colpite dai proiettili, spesso vive per miracolo. Il personale militare regala una tessera telefonica, giochi, momenti di ascolto per chi, scampato alle bombe, ha nostalgia di casa e deve fare i conti con gli incubi che non li insegue durante la notte».
In tutte le guerre, di qualsiasi periodo storico, spesso chi è scampato al pericolo si è portato e si porta appresso per tutta la vita cicatrici fisiche e mentali.
«È così anche questa volta. Abbiamo operato o medicato donne e minori arrivati sulla nave dopo interventi sommari, di semplice tamponamento, molto spesso privati di un braccio o una gamba. A Gaza sta nascendo un popolo di invalidi, spesso in giovane età, con conseguenze che andranno ben oltre la fine del conflitto. Intendo conseguenze non soltanto di carattere medico-sanitario, ma sociale perché una persona gravemente invalida significa che ha bisogno di una società capace di sostenerla nella vita quotidiana».
La situazione peggiore riguarda i bambini, molti dei quali rimasti orfani: chi vuole ricordare?
«Penso ad Hamed e ai suoi 15 anni da orfano dopo che l’intera famiglia è rimasta sotto i bombardamenti, con il solo papà che si è salvato ma che non ha potuto oltrepassare la frontiera di Rafah controllata rigidamente da egiziani e israeliani. Non ha più la gamba sinistra, sta seduto su una carrozzina spinta da una infermiera e di notte ha crisi di panico. Lo tiene in vita solo la speranza di riabbracciare il padre. Mi chiedo cosa possa provare un ragazzino della sua età in quelle condizioni, cosa rimane della sua vita. Tutto laggiù, ma se ci pensiamo è lo stesso per ciascuno di noi, chiede salvezza. La chiedo per Hamed come per me».
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