MILANO
Keith Haring e l’«Uomo vitruviano»

Si legge nel brevissimo diario di Keith Haring, il graffitista newyorkese morto di Aids nel 1990 ad appena 31 anni: «Sento che in qualche modo potrei continuare una ricerca, un’esplorazione che altri pittori hanno iniziato. Io non sono un inizio, non sono una fine. Sono un anello di una catena». E su questo filo rosso si dipana la sorprendente grandiosa mostra di Palazzo Reale a Milano: «Keith Haring. About Art».
L’artista quando nel 1978 giunge a New York da Pittsburgh è affascinato dai graffiti stradali e della metropolitana, ai quali si accosta unendo al disegno la performance ed interagendo anche con la gente. Diviene quindi «artista di strada», ma ha alle spalle l’amore per il fumetto e il disegno, e lo studio dell’arte del passato che guarda e reinterpreta con occhio assolutamente nuovo, originale.
Il suo alfabeto ideografico sono figure semplificate secondo un linearismo continuo condotto su fondi di pochi colori piatti. Sono gli irrequieti omini senza volto (che possono diventare giganti), soli o aggrovigliati, l’animaletto angoloso simile a un cane (firma iniziale dell’artista), sono i grandi cuori rossi, il serpente divoratore, le «x» e le crocette. Combinandoli in uno spazio strettamente bidimensionale, il creativo invia al mondo improvvisi messaggi di vita, di amore e sesso, ma anche di morte e malattia. È l’espressione di una controcultura impegnata sui temi del nostro tempo: Aids, droga, razzismo, minaccia nucleare, arroganza del potere, emarginazione sociale.
E il suo omino ingigantito - dallo spessore di un foglio di carta, con un buco nella pancia e le crocette tra le braccia e le gambe aperte - fa il verso al leonardesco «Uomo vitruviano»: la fragilità umana che solo l’arte può riscattare si confronta con l’idea dell’uomo in perfetta armonia con l’universo. Così la sezione «Umanesimo» avvia il percorso espositivo (che è curato da Gianni Mercurio) inanellato, in sette sezioni, da oltre centodieci opere prodotte in soli dodici anni, e in dialogo con le immagini a cui l’artista si è ispirato.
Gli omini e i cagnetti irradiati da tv, lampadine e radio disegnati su tre cerchi lunghi otto metri sono più eccitati dei soldati romani alla conquista della Dacia visti sulla «Colonna Traiana»; ma anche la «Lupa Capitolina» ha il suo bel da fare con i gemelli.
Lasciati «Archetipi, miti e icone» si entra nell’immaginario fantastico, il bizzarro, macabro mondo di Bosch e compagni, che Keith Haring reinterpreta in fitte scene fumettistiche popolate di mostri, serpenti, coccodrilli, scheletri in un continuum che non lascia spazi vuoti su grandi fogli e tele.
Nei suoi disegni non manca una buona dose di «Etnografismo», essendo l’artista fortemente interessato alle immagini azteche, degli africani e degli indiani d’America perché in esse, affermava, «ci vedo il mio riflesso». Ma intese esplorare anche l’arte moderna e postmoderna; e qui la carrellata è lunga e ricca di sorprese, andando da Picasso e Klee ad Alechinsky, a Warhol e altri pop artisti, rivisitati questi ultimi nei cartoon di Mickey Mouse. E così il «graffitaro» può ben entrare a testa alta nelle sale del Palazzo Reale.
«Keith Haring. About Art» - A Milano, Palazzo Reale, piazza Duomo 12, sino 18 giugno lunedì ore 14.30-19.30, da martedì a domenica 9.30-19.30, giovedì e sabato ore 9.30-22.30, biglietti 12/10/6 euro, altre info www.mostraharing.it.
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