IL PERSONAGGIO
"La mia Mobile? Una Squadra"
Silvia Carozzo, 36 anni, va a caccia di criminali. A capo di ventisette uomini

È una bella ragazza di 36 anni la nuova dirigente della Squadra Mobile di Varese. Biondina, faccia pulita, il modo discreto - non timido - di chi sa di fare le cose per bene, Silvia Carozzo è arrivata in città il 18 ottobre e ha già messo a segno il primo risultato, in stretta collaborazione con il commissariato di Busto Arsizio: l’arresto del dominicano accusato di aver ucciso il convivente afghano. Il corpo è stato scoperto il 26 ottobre, il colpevole è finito in carcere quattro giorni dopo.
Originaria di Arona, avvocato, in polizia dal 2007, Silvia è già stata dirigente nel settore frontiera a Domodossola e, dal gennaio 2012 fino a un mese fa, responsabile della sala operativa della Questura di Torino. Ora ha preso il posto di Sebastiano Bartolotta, trasferito a Latina a indagare sul clan dei casalesi, e guida un gruppo di ventisette uomini.
Dottoressa Carozzo, sono passati 52 anni da quando le donne sono entrate in polizia, nel 1960: oggi i dati parlano di 14.862 donne su 89.118 uomini, il 13%, eppure la loro presenza ci incuriosisce sempre. Perché?
«Vista dall’interno in effetti la presenza delle donne in polizia è normale in tutti i ruoli, dall’agente al questore. Ma è un servizio molto particolare e probabilmente fa specie che se ne occupi una donna perché richiede una disponibilità illimitata del giorno e della notte. Non ci sono festività, il telefono è sempre acceso (e suona spesso, ndr, gli uffici non chiudono mai, anzi, d’estate e a Natale, quando aumentano furti e rapine, lavorano di più».
Ci spieghi bene che cosa fa la Squadra Mobile che lei dirige.
«È l’ufficio investigativo della Questura e svolge esclusivamente attività di polizia giudiziaria in quattro sezioni: criminalità organizzata e straniera, reati contro la persona in danno di minori e reati sessuali, reati contro il patrimonio e la pubblica amministrazione, antidroga e crimine diffuso, la sezione più a contatto con la strada».
E il suo ruolo qual è?
«Innanzitutto di coordinamento e di dialogo con i pubblici ministeri, ma capita anche che io abbia un ruolo più operativo in casi particolarmente dedicati».
Come sono i suoi uomini?
«Una grande squadra. In polizia non si lavora da soli: la squadra è tutto. E deve dare la massima disponibilità: chi fa parte della Mobile, dal dirigente all’ultimo arrivato, deve dare garanzia di affidabilità, fiducia, riservatezza. Hanno tra i 40 e i 45 anni, tre sono donne (perfettamente integrate) ma, in gergo, sono tutti uomini».
Perché i poliziotti della Squadra Mobile non indossano la divisa?
«Per differenziare i ruoli. La Squadra Mobile interviene sulla scena del reato accanto agli agenti della Volante: loro devono essere individuati subito dal cittadino per il primo soccorso, noi invece dobbiamo poter svolgere le indagini in modo riservato e anonimo, perciò vestiamo abiti civili».
Non si è mai sentita in imbarazzo o discriminata per il suo essere donna?
«Sinceramente no. Durante il corso per funzionari ho fatto parte di un gruppo fatto da venticinque uomini e venticinque donne, quindi già a livello di formazione sono partita bene. A Torino ho diretto un Commissariato, che è comunque un ufficio operativo, dove ero curiosa di verificare se ci fossero pregiudizi. Non ce ne sono stati. Gli operatori mi dicono che nel dirigente non vedono il dottore o la dottoressa, ma il capo».
Diventare poliziotto era il suo sogno?
«Ho cominciato a pensarci con l’università. La mia passione è il diritto, quindi ho fatto e superato l’esame di avvocato per non precludermi nessuna strada, ma poi ho vinto il concorso e sono entrata in polizia. Ho fatto tanti sacrifici per studiare».
Quindi la sua vera passione è il diritto?
«Sì, mi piace studiarlo e che venga applicato alla lettera, come si deve. Trovo che l’attività investigativa della squadra mobile non deve essere finalizzata a se stessa, ma deve arrivare a dibattimento in un processo per avere un risultato. E per questo è importante redigere gli atti bene».
Nella scala gerarchica a chi risponde?
«Al mio questore (Danilo Gagliardi, ndr). E poi rendo conto anche all’autorità giudiziaria con cui lavoro».
Comandare è una sua attitudine?
«Non sono una che cala il bastone dall’alto, ma quando è il momento di decidere mi assumo ogni responsabilità».
Una giornata tipo?
«Sono a Varese da un mese, abito vicino alla Questura e sto ancora cercando di capire, ma mi sembra che quando non ci sono emergenze sia dalle 8 del mattino alle 8 della sera, compresi sabati e domeniche».
Com’è la sua vita privata?
«Sono single quindi il tempo che resta è tutto per me: cerco di fare sport, vado a correre, leggo un po’ di tutto, ma i libri polizieschi sono i miei preferiti».
Il casco e il manganello sulla scrivania sono suoi?
«Sì, questo esula dall’attività di squadra mobile: come funzionari della questura facciamo anche attività di ordine pubblico, ad esempio per le partite di calcio e basket. Ma il manganello non l’ho mai usato».
E una pistola l’ha mai usata?
«No, mi sono trovata in situazioni difficili quando ero a Torino e ho dovuto fronteggiare i manifestanti in val di Susa, ma per fortuna la pistola non è servita».
Si è mai pentita di essere in polizia?
«Mai. Sicuramente una consapevolezza ancora maggiore dell’impegno che questo comporta l’ho avuta lavorando. Quello che si vede nelle fiction tv c’entra davvero poco con la nostra attività, che è rilevante non solo sul campo ma anche in ufficio. Bisogna gestire grossi faldoni di materiale cartaceo che arrivano dalla procura, una mole veramente onerosa».
Scusi, e Montalbano?
«Montalbano non esiste. Esistono poliziotti che fanno molto di più di Montalbano».
I tacchi li mette?
«Certo non al lavoro: gonna e tacchi sono banditi. Mi vesto liberamente, anche in jeans, purché sia comoda se devo uscire».
A cosa non rinuncia?
«A un minimo di femminilità».
Il 25 novembre è la giornata mondiale contro la violenza alle donne.
«Questa giornata mi coinvolgerà come rappresentante della polizia di Stato, che io sia donna conta poco. Nella sezione stalking c’è una sola donna e ci sono sei uomini bravissimi nell’ascoltare le donne».
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