POLVERIERA MEDIO ORIENTE
«Lavorava per Assad in Siria: sono scappato per salvarmi»
Nabil al Lao, docente universitario di Arona, racconta alla Prealpina i suoi 14 anni nelle stanze del potere in Siria

«Parlo da uomo libero!» Così esordisce Nabil al Lao quando gli chiediamo di descriverci il suo Stato d’animo in questi giorni. Docente universitario siriano, rifugiato politico in Italia dal 2013, vive ad Arona e insegna Fondamenti di Interpretariato Arabo - italiano alla Scuola Superiore per Mediatori Linguistici “Loria”, presso la Società Umanitaria di Milano, Relazioni Internazionali e lingua francese al Centro Universitario “Salvo D’Acquisto” di Borgomanero e alla SSML “Carolina Albasio” di Castellanza. «Ho seguito tutto – racconta alla Prealpina – fin dalla vigilia della caduta di Aleppo nelle mani dei ribelli; era l’anteprima di quella di Damasco. Nessuno poteva immaginare che fosse così vicina. Sono nato sotto la dittatura feroce di questi criminali; la mia unica speranza era di non morire sotto dittatura».
Ma adesso non c’è il pericolo che in Siria vada al potere qualcuno peggiore di Assad? Si parla di estremisti islamici...
«È una domanda giusta. Ho visto tutte le interviste che questi uomini hanno fatto; volevo capire da dove arrivano. Sono tutti Siriani, contadini che abbiamo visto fra il 2012 e il 2015, sfollati, deportati, perseguitati, massacrati prima dal regime poi dai bombardamenti di Putin; sono quelli che hanno vissuto nel fango, dentro le tende da profughi e hanno coltivato il “sacro principio della vendetta individuale”. Io lo dicevo nel 2012 all’entourage di Assad; guardate che i nostri servizi segreti stanno massacrando contadini che hanno il principio della vendetta; quelli non molleranno mai».
Avete letto bene: Nabil al Lao era a stretto contatto con Assad e con le persone più vicine a lui.
«Nel 1998 sono stato scelto come interprete di francese per il presidente Hafez al Assad, padre di Bashar. Dopo qualche riunione di lavoro Assad mi ha notato e ha ordinato al direttore del suo ufficio di mandarmi a lavorare al fianco di suo figlio, richiamato in Siria da Londra, dove studiava. Bashar non aveva alcun incarico: era solo il figlio del presidente, che il padre voleva come successore».
Per la precisione: la successione al potere era destinata a Bāsil, fratello maggiore di Bashar, morto in un incidente d’auto nel 1992, in circostanze stranissime.
«Io ero appena tornato dai miei studi superiori in Francia. La città di Damasco e tutta la Siria, un Paese di 23 milioni di abitanti, è rimasta bloccata completamente per 40 giorni. Mi ricordo tutto. Nel 1992 ero professore al Centro di ricerche scientifiche di Damasco. Quando è rientrato da Londra Bashar ha tenuto una conferenza stampa. Lo sentivamo per la prima volta: una persona che valeva poco o nulla. Indeciso, incoerente, non parlava per niente bene. Dava l’impressione di essere uno che sta male nella sua pelle. Era il “figlio viziato” che faceva di tutto, andava con le ragazze. Beh per un giovane, queste cose ci stanno – commenta al Lao –. Ma lui lo faceva in grande, come figlio di un dittatore che aveva in mano tutto il potere, la ricchezza del Paese. Quando lo ha sentito parlare alla conferenza stampa il padre ha capito subito che doveva essere inquadrato, formato, che non era convincente. Per prima cosa gli ha impedito di andare in onda; infatti non lo abbiamo mai visto né sentito in TV fino al suo accesso al potere, nel 2000. Ha deciso di prepararlo tramite gente scelta; io invece sono arrivato un po’ per caso. Ero stato scelto come interprete per il padre; lui ha notato che io forse possiedo qualche dono che poteva diventare utile per la formazione del figlio. Ha dato ordine al direttore del suo ufficio di mandarmi a chiamare; “Da domani lei lavora con il dottor Bashar” mi ha detto il direttore. Io ero contentissimo. Ero giovane e ambizioso; era per me l’aprirsi delle grandi porte della vita. Ho lavorato con lui dal 1998 al 2000, quando è morto suo padre. Poi sono rimasto nella sua squadra fino al 2012. Quattordici anni nelle sfere più ristrette del potere, soprattutto a livello internazionale. Nelle relazioni interne e in quelle con i Paesi arabi guardavo da lontano, ma sui rapporti internazionali io ero in prima fila e sapevo tutto. Quello che dicevano i mass media era il due per cento del contenuto di quegli incontri, che si svolgevano a porte chiuse».
Ma il ruolo di Nabil al Lao era solo quello di interprete o c’era qualcosa di più?
«Assad mi chiedeva moltissime informazioni sull’Europa, la Francia, sui rapporti internazionali. Io ho sempre letto moltissimo e questo ad Afez Assad piaceva molto. Nell’ultimo anno della sua vita non poteva più andare a palazzo perché era invecchiato e stanco. Io andavo sempre a casa sua a bere il caffè, il succo di frutta... Mentre attendevamo una chiamata programmata, lui mi chiedeva di essere presente un po’ prima e mi faceva tantissime domande. Lui era vecchio e malato, io ero il giovane appena tornato dalla Francia, che vedeva il mondo a portata di mano».
In realtà, il suo ruolo era quello di aiutare il vecchio dittatore a capire cosa avevano in testa i suoi interlocutori stranieri, non solo di tradurre le loro parole. Intanto Assad gli chiedeva sempre che libri stesse leggendo e quale fosse il loro contenuto.
«Gli dicevo senza paura anche cose che non gli piacevano. Premettevo sempre che quello era ciò che diceva l’autore. Ogni tanto lui mi chiedeva anche cosa pensassi io; il mio parere per lui era pregiato. Io glielo esprimevo a riguardo dei suoi colloqui internazionali sfruttando le mie competenze di linguista, facendo emergere il “non detto” dall’utilizzo di certe parole anziché di altre da parte dell’interlocutore».
Quando sono cambiate le cose nel rapporto fra al Lao e gli Assad?
«Quando ho finito il mio mandato. Io ero parzialmente distaccato dal Ministero dell’Università e Ricerca scientifica, come professore, verso il Ministero della Cultura. C’era un tetto massimo per il distacco: 8 anni, perché non volevano che le Università si svuotassero dei grandi professori e che i professori “perdessero la mano” dell’insegnamento e della ricerca. Visto che ero al servizio del Presidente, lui poteva tenermi anche per tutta la vita; il problema è nato quando sono stato nominato direttore del Teatro di Damasco. Dunque, ero giunto al termine dei miei 8 anni di distacco e cominciavo a vedere la deriva presa dal regime fra il 2000 e il 2005, soprattutto dopo l’assassinio del Primo ministro libanese, Rafiq Hariri, ucciso dai Siriani e da Hezbollah libanese. Il regime è caduto definitivamente nel 2013; purtroppo è stato aiutato da un altro feroce dittatore, Putin e da una dittatura teocratica, l’Iran».
Ricordiamo che l’inizio della rivolta in Siria risale al 2012; nel marzo del 2013, dice al Lao, tutto il territorio siriano ne era coinvolto. Lui però ha intravisto la caduta del regime già nel 2005, quando è stato ucciso Hariri, amico fraterno del presidente francese Jaques Chirac. Quest’ultimo, dice al Lao, aveva avvertito Assad di non toccare Hariri.
«Io sono testimone di queste parole di Chirac. Gliel’ha ripetuto due volte. Lo hanno ucciso».
Dopo il suo assassinio Chirac ha iniziato una guerra politica contro Bashar; mobilitando contro di lui tutto il mondo democratico. Ma come si è arrivati alla rottura completa e alla fuga dalla Siria?
«Dopo la morte di Hariri ho capito la cronaca di una caduta annunciata. Io non potevo andare da nessuna parte; avevo il mio lavoro. Ho cercato il momento giusto; una settimana prima di finire i miei 8 anni di distacco ho inviato una lettera a Assad, al ministro della Cultura, a quello della Ricerca scientifica e al presidente dell’Università di Damasco, dicendo che avevo terminato il mio mandato, ringraziavo tutti per la fiducia accordatami, che sarei stato reintegrato in Università. Era una via di fuga molto garbata e diplomatica, studiata anni prima. Quando sono tornato in università, però, sono stato nominato subito rettore di un grande ateneo privato di Damasco. Ho accettato perché ho visto una ulteriore possibilità di uscita dal settore pubblico verso quello privato. Ho lavorato lì per circa tre anni. La rivoluzione era già scoppiata. Ho ricevuto una chiamata dal direttore dell’ufficio del Primo ministro siriano, che gentilmente mi ha detto: “Professore lei è in lista per un posto come Ministro nel nuovo governo di unità nazionale”. Io ho risposto: “Direttore, cosa vado a fare? Concerti di musica mentre sparano alla gente per strada?” Ero in lista per diventare ministro della Cultura, grazie alle attività che avevo svolto negli anni precedenti: direttore del Conservatorio, poi fondatore e primo direttore dell’Opera di Damasco. Ero molto in vista. Assad voleva un governo tutto fatto da professori universitari che erano stati all’estero, per mandare un segnale all’Europa; come a dire “Guarda, sono tutti figli tuoi”. Ma dalle finestre di casa mia vedevo sparare alla gente per strada. Il direttore mi ha detto: “Professore, io non posso continuare un discorso su questi temi al telefono. Ho trasmesso il messaggio; lei si prepari ad un colloquio, prossimamente”. Io ho capito subito cosa significasse: ho preso mia madre e l’ho portata in Libano».
Per capirci: come ha fatto al Lao a trarre certe conclusioni da quella telefonata?
«L’imprudente ero stato io. La telefonata era ovviamente, registrata e lui mi ha interrotto subito. Io allora percepivo segnali su colleghi che lavoravano con noi ed erano spariti nel nulla; ho sentito di un funzionario molto vicino a Bashar che aveva mandato sua moglie in Libano ed era lui stesso scappato, di notte. Ho capito che anch’io ero nella lista dei cervelli intorno a Assad, che voleva rompere completamente con il passato tramite loro. Tutte persone cariche di informazioni e quindi potenzialmente pericolose. Ero stato presente accanto a lui al telefono, in incontri a porte chiuse. Ho sentito Bashar decidere di eliminare persone. Non che dicesse “uccidete”, ma si dichiarava insoddisfatto di una persona di fronte alla sua squadra dei servizi segreti e questo era il segnale».
Insomma da una serie di segni al Lao ha capito che sarebbe toccata anche a lui quella sorte. Ma provvidenziale è stata la brevissima telefonata di un suo caro amico, entrato nei servizi segreti.
«Mi ha chiamato sul fisso di casa, non sul cellulare che sarebbe stato intercettato. Mi ha detto “esci di casa” ed ha messo giù; non so che fine abbia fatto, anche la sua posizione era molto delicata. Spero non sia stato eliminato. Mentre andavo via in auto ho sentito rumori strani dal mio cellulare Nokia; ho guardato lo schermo e ho visto che stava “impazzendo”. Ho capito che mi stavano localizzando, ho buttato il telefono fuori dal finestrino, sono corso a prendere mia madre, che è libanese e siamo scappati in Libano. La mia casa è stata saccheggiata completamente, distrutta dai servizi segreti e poi dall’esercito, che ha assalito tutto il quartiere. Erano anni di terrore».
Dal Libano a un certo punto al Lao è approdato nel Nord ovest dell’Italia.
«In Libano sono rimasto per tre anni. Un mio amico francese, docente universitario, mi ha mandato un invito, così sono riuscito a stare due mesi in Francia come professore ospite. Volevo poi tornare a Beirut passando per questa zona del Piemonte, dove viveva un padre italiano della comunità dei Piccoli Fratelli di Charles De Foucold, che avevo conosciuto a Damasco nel 1976. Sono rimasto un po’ lì da loro, a Invorio, nel Novarese, poi, prima di tornare in Libano ho avvertito mia madre per telefono. Lei mi ha detto che mi stavano cercando dappertutto, anche lì, raccomandandomi di restare dov’ero. Sono rimasto prima a Invorio, poi a Gallarate, per cercare lavoro; lì c’erano alcuni Siriani, era vicino a Invorio e meno costoso che a Milano. In senso psicologico ero distrutto; poi c’è stata la rinascita. Come oppositore del regime ero mal visto. I politici del vostro Paese hanno coccolato la dittatura fino a poco prima che cadesse. Dopo quattro anni in cui ho vissuto veramente male ho trovato un lavoro come insegnante di Arabo nella scuola per mediatori linguistici e pian piano sono diventato un insegnante conosciuto. Prima ho fatto lavori per pura sopravvivenza, ma non erano il mio campo. L’Italia ti dà una carta per rimanere ma non è un Paese di rifugio: non è un paradiso, è un inferno. Io ho vissuto anni durissimi, mal visto. Adesso, da una decina di giorni, mi hanno “riscoperto”, dopo 11 anni: è troppo tardi. Tu, che mi stai intervistando ora, 10 anni fa sei stato il primo a farlo su un giornale italiano. Scrivilo pure, questo!»
Eravamo insieme in valle Formazza, in una vacanza di gruppo.
«Io sono vivo e posso parlare, altri miei amici sono spariti nel nulla. Qualcuno ha avuto infarti brutali ed è morto giovane.
Ma torniamo un attimo a parlare della vittoria dei rivoltosi.
«Dopo 12 – 14 anni ottengono la loro vendetta. Hanno agito da soli? No. La base di tutto viene dai generali dell’esercito siriano che hanno disertato per non dover combattere il loro stesso popolo; soldati, sottufficiali, ufficiali, generali, sono andati in massa verso la Turchia. Più del 30% dell’esercito si è ribellato e ha formato il nucleo iniziale dell’Esercito Libero Siriano, che adesso ha anche cambiato nome. Al loro fianco ci sono i servizi segreti turchi e la decisione del presidente Erdogan di mettere fine a questa tragedia. Sarà antipatico a molti, ma Erdogan si è dimostrato un vero uomo di Stato. Sono jihadisti? La mia risposta è: sì. Sono pericolosi come quelli che abbiamo visto in altri casi? No, perché rispondono all’ideologia del “nemico vicino”. I jihadisti sono di due tipi; quelli che hanno l’ideologia del “nemico lontano” e quelli del “nemico vicino”. I più pericolosi, per noi prima che per voi occidentali, sono quelli del “nemico lontano”; loro sono andati a colpire Washington. Vogliono distruggere gli Stati Uniti, che stanno dietro a Israele. Gli altri hanno come obiettivo il “nemico vicino”, cioè i regimi corrotti da abbattere. Quello di Assad non era solo un regime corrotto; ve ne accorgerete col tempo. Vedrete il bilancio delle vittime, ancora da scoprire nelle fosse comuni: sono due milioni e 400 mila, I numeri forniti fino all’altro ieri dalle Nazioni Unite, 350 mila morti, sono sbagliati, lo abbiamo sempre detto noi intellettuali siriani».
Precisiamo che al Lao si riferisce solo al periodo che va dalla rivolta del 2011 in poi; ricorda che il padre dell’attuale dittatore, Hafez Al Assad, insieme con suo fratello Rifaat, altrettanto feroce, nel 1982 fece una strage nella città di Hama, provocando circa 40 mila morti.
«Per quello quando abbiamo sentito che è caduta Hama, dopo Aleppo, abbiamo capito che il regime era caduto. Rifaat è stato uno dei primi a fuggire. Si stanno scoprendo adesso le fosse comuni piene di cadaveri».
Al Lao fa riferimento ad uno studio dell’Ispi di Milano apparso sulla rivista “Limes”, che contiene una cartina della Siria piena di pallini che indicano altrettante fosse comuni; pallini neri, vittime dell’Isis; rossi, vittime del regime; gialli – ed enormi, precisa al Lao – vittime di Hezbollah in Libano. Anche Hezbollah, spiega il nostro interlocutore, è un’organizzazione criminale; Libanesi di obbedienza iraniana.
«Hanno appoggiato Assad, lo hanno tenuto in piedi. Hanno fatto praticamente una epurazione etnica. In Siria ci sono fosse comuni dappertutto. Una settimana fa, l’ho visto alla TV italiana, hanno trovato una fossa comune grande come un campo di calcio, piena di centinaia di migliaia di cadaveri. L’ho riconosciuto, è alla periferia di Damasco, nel deserto fra Damasco e Homs.»
Perché è così importante sottolineare che i rivoltosi sono tutti Siriani?
«Perché l’Isis, che ha devastato tutto, era composta per gran parte da stranieri: Pakistani, Afghani, Tunisini, Marocchini. È importante sapere che quelli che hanno liberato il popolo sono tutti figli della Siria, che hanno pagato il prezzo più alto. Le loro case sono distrutte; anche il loro capo ha recuperato la sua casa a Damasco l’altro ieri; gli era stata confiscata e assegnata a un militare fedele al regime. Io ammiro il loro coraggio; potevano essere massacrati tutti. Non è un discorso ideologico il mio; io, Siriano, sono stato liberato da Siriani; hanno liberato mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle».
Il popolo siriano, la società civile siriana, riuscirà a creare uno stato democratico, uno stato di diritto?
«No. Io vorrei per il mio Paese un governo laico. Oggi la gente a Damasco manifesta dicendo solo che non vuole un governo religioso. È giusto che sia così, è giusto! Si tratta della parte di Siriani che ha la mia stessa formazione; non voglio parlare di “occidentalizzati”, sono siriani che hanno una vita moderata e aperta, sono buona parte della società siriana, credente, praticante, rigorista, però moderata. La mia famiglia, al Lao, è composta di più di 200 persone; l’unica donna che non ha mai voluto portare il velo è la mia grande mamma, 87 anni. A me non piace vedere le mie nipoti velate, l’ho sempre detto: però ho il pieno rispetto di una libertà individuale, di coscienza. I rivoltosi sono lo specchio di una società che è già così; non vanno a islamizzare, la popolazione è già islamizzata. Il regime ha portato questa popolazione all’esasperazione: una minoranza dell’8%, gli Alauiti, ha massacrato una maggioranza dell’86% e oltre. Quando mi dicono: “Adesso, proteggere le minoranze”: è falso! Noi abbiamo vissuto la tirannia sanguinaria della minoranza. In Iraq i Sunniti di Saddam Hussein, che erano una minoranza, hanno massacrato la maggioranza Sciita; i Maroniti, che sono una minoranza cristiana in Libano, hanno massacrato la maggioranza della popolazione, dal 1976 per 15 anni di sanguinosa guerra civile. Poi gli Sciiti libanesi, una minoranza, dal 1980 fino a ottobre scorso, hanno distrutto nuovamente il Paese: è Hezbollah. Allora chi ha massacrato chi? È la minoranza dittatoriale che ha distrutto l’Iraq, la Siria e il Libano per due volte! Dicono “proteggere i Cristiani”: ma i Cristiani per primi hanno massacrato, non solo i Libanesi, ma prima ancora i Palestinesi. I Palestinesi non sono del tutto innocenti: nel 1976 vedevano il Libano come “la Palestina alternativa”. Nel 1970 vedevano la Giordania come patria alternativa: è scoppiata una guerra civile terribile fra il Re, Hussein e l’OLP; il Re ha salvato il suo regno».
Insomma, tutta una storia di minoranze ben organizzate, decise, crudeli che opprimono maggioranze non altrettanto coese.
«È proprio così. Queste minoranze hanno distrutto il Medio Oriente».
Fra queste minoranze va inclusa anche Hamas?
«Certo. Anche la Jihad Islamica. Io non sono per nulla d’accordo con quello che hanno fatto il 7 ottobre 2023, ma grazie a quello noi adesso siamo un Paese libero».
Le parole di Nabil al Lao vanno capite per quello che vogliono veramente dire; descrivono un paradosso per molti aspetti terribile. Non parla solo della liberazione dei Siriani ma anche di quella del Libano dalla stretta mortale di Hezbollah.
«È una cosa terribile, allucinante. Io non ho mai detto una cosa del genere prima; me ne assumo la responsabilità».
Torniamo alla situazione siriana.
«Noi nella nostra educazione familiare abbiamo sempre imparato che il vicino di casa che non ha la nostra stessa religione è un fratello; anzi, più che fratello. Noi avevamo sempre l’opportunità di andare a festeggiare, 2 o 3 volte l’anno, in casa dei vicini o di invitare i vicini a casa nostra. Ho sempre sentito mio padre dire: “I nostri fratelli cristiani hanno una festa. Andiamo a festeggiare da loro”. Ero piccolissimo!».
Anche gli Ebrei rientravano in questo clima di convivenza e rispetto?
«Ce n’erano alcune migliaia. Sono partiti quasi tutti dopo la guerra del 1967. Certo, il rispetto andava anche a loro. I Musulmani sposavano le loro donne. Ad Aleppo c’era una buona presenza. I loro beni ci sono ancora: io dico loro, è ora di tornare per recuperarli. Noi dal 1970 al 2024 abbiamo vissuto sotto la tirannia di minoranze. La convivenza non l’abbiamo imparata con Assad. È stato lui che ha provocato la divisione per presentarsi come protettore dell’unità. È scappato l’8 dicembre come un criminale senza neanche dirlo a suo fratello, che abita davanti a casa sua. Ha lasciato la sua comunità, complice dei suoi massacri, nelle mani del diavolo. Ha riempito tre aerei di soldi e oro; è scappato dal suo amico e protettore Putin. “Protettore” per adesso: io penso che quando arriverà il momento giusto lo manderà davanti al Popolo siriano per essere condannato. Ci sono pressioni internazionali fortissime; tutti chiedono che venga condannato. Anche Biden lo ha detto due giorni fa: sarà condannato e pagherà. Com’è stato per Saddam Hussein in Iraq vogliamo vederlo condannato davanti alle telecamere; prima di tutto vogliamo che rientrino i soldi del Popolo, massacrato e affamato; devono tornare alla Banca centrale. Ci sono tonnellate di oro e miliardi di dollari, rubati anche da sua moglie».
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