’NDRANGHETA
Ucciso perché confidente
Udienza in corte d’assise per l’omicidio di Cataldo Aloisio. Il delitto 12 anni fa. Martedì Vincenzo Rispoli è stato condannato a 14 anni e 8 mesi per associazione mafiosa nell’operazione Krimisa

Fresco di condanna a quattordici anni e otto mesi, pronunciata a Milano martedì, Vincenzo Rispoli ieri è ricomparso in videoconferenza per affrontare la corte d’assise di Busto: insieme a Francesco Cicino, Silvio Farao, Cataldo Marincola e Vincenzo Farao (l’unico libero ma assente) dell’omicidio di Cataldo Aloisio, ammazzato il 27 settembre del 2008.
L’ormai conclamato capo della holding ‘ndranghetista con filiale a Legnano e Lonate venne incastrato dalle propalazioni del pentito Francesco Farao, suo cugino, e a maggio del 2019 finì in carcere. Tre mesi più tardi - dopo l’oprazione Krimisa - anche il suo storico braccio destro Emanuele De Castro iniziò a collaborare con la giustizia: confermò il suo ruolo nel delitto e tirò in mezzo pure Cicino, collocandolo alla guida della Bmw sulla quale Aloisio venne freddato.
La colpa del trentaquattrenne? Ne aveva più di una a parere del clan. La prima era quella di essere un confidente del maggiore dei carabinieri del nucleo investigativo di Crotone Luigi Di Santo. A quanto pare gli aveva rivelato che a uccidere suo zio Vincenzo Pirillo erano stati i Marincola-Farao e svelò pure dove si nascondessero i latitanti Silvio Farao e Cataldo Marincola, reggenti della cosca di Cirò, ossia in Liguria, sul confine francese.
Aloisio avrebbe poi commesso la grave imprudenza di dire in giro che avrebbe voluto vendicare l’omicidio dello zio (per il cui delitto il processo è in corso a Catanzaro). Era diventato una scheggia impazzita.
Francesco Farao provò a salvarlo assicurando agli affiliati che gli avrebbe dato personalmente una lezione: «Perché deve toccare qualcuno di noi? Che gli interessa, lui c’ha una famiglia» (…) «gliela spacco io la testa, no?» (…) «c’ha due bambini piccoli», è una delle intercettazioni che comprovano il teorema accusatorio. Marincola disse: «No, no, tu non gli devi spezzare niente, perché questo è un problema nostro». Lo aveva sentenziato anche suo padre Silvio: «Il sangue nostro ce lo dobbiamo bere noi, non lo possiamo dare a nessuno».
Il 26 settembre del 2008 Aloisio raggiunse Legnano per incontrare alcuni conoscenti. Rispoli e i suoi uomini decisero di cogliere l’occasione per eseguire la condanna a morte decisa dai capi. De Castro - che prima della sentenza di martedì in aula ha vaticinato futuri riscontri delle sue rivelazioni - ha spiegato tutto agli inquirenti: «Rispoli mi racconta... mi dice che erano lì, al bar Gaia a Legnano. C’erano Enzo Rispoli, Vincenzo Farao e Franco Cicino, che è uomo di fiducia di Alessio Novella (figlio del boss Carmelo, ammazzato pure lui). Sono lì sempre con l’intento di trovare Cataldo e attirarlo in qualche trappola». Vincenzo Farao avrebbe chiamato Cataldo convocandolo con una scusa. «Lo fanno venire lì al bar e si mettono a chiacchierare. Cataldo aveva un appuntamento, Enzo dice “ti accompagno io”. Lui accettò, salirono in macchina, Cicino alla guida, Aloisio si mise a fianco, e Rispoli dietro di lui. Cicino era stato messo al corrente di questa cosa, gli aveva detto Alessio di mettersi a disposizione con Enzo per quest’omicidio qua...».
A bordo di una Bmw, i tre si diressero verso un centro commerciale dove Aloisio aveva un appuntamento. Lo attesero e «al ritorno Cicino fece finta di sbagliare strada per ritrovarsi in un posto isolato, che a Enzo Rispoli è sembrato favorevole... trovata l’occasione gli sparò in testa. Da dietro». Il corpo di Aloisio venne abbandonato davanti al cimitero in cui riposava Carmelo Novella, una strategia per depistare gli investigatori. «Poi Enzo buttò pure il revolver, quello che poi ho recuperato io... la 357 a canne corte». Si torna in aula il 30 settembre per ascoltare i primi testimoni del pm antimafia Cecilia Vassena.
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