OLTRE FRONTIERA
’Ndrangheta, prima condanna in Ticino
Tre anni e 8 mesi a un uomo processato per partecipazione a organizzazione criminale

Il Tribunale penale federale di Bellinzona ha condannato nei giorni scorsi a tre anni e otto mesi di carcere un italiano di 61 anni, residente vicino Bienne, nel canton Berna, riconoscendolo colpevole di partecipazione a un’organizzazione criminale, nel caso specifico la ‘ndrangheta.
La notizia potrebbe sembrare banale alle latitudini lombarde, ma per la Svizzera si tratta di una sorta di “prima assoluta” tenendo pure conto del fatto che, per giungere a questa condanna, i giudici della Confederazione si sono avvalsi, ritenendole veritiere, delle testimonianze in videoconferenza due pentiti delle cosche in Italia finiti dentro nell’operazione Ulisse.
Mai in Svizzera, dove pure ci sono stati importanti operazioni internazionali che vedevano implicati “nomi pesanti” delle ‘ndrine, un pentito italiano è stato ritenuto determinante tanto da essere sentito in un procedimento penale di questa portata.
La Svizzera ha imparato a conoscere questo genere di reati associativi negli anni ‘80, dalle prime visite di Giovanni Falcone alla procuratrice svizzera Carla Del Ponte. Ha imparato a riconoscere questi fenomeni ma non a punirli con forza, vista l’inapplicabilità totale dei reati associativi (Art. 20ter del Cps) commessi nell’ambito di organizzazioni criminali.
Non è un caso se negli ultimi sei anni siano state condotte una quindicina di inchieste contro presunti affiliati alla ’ndrangheta in Svizzera, tutte partite e coordinate dalle autorità italiane.
Tornando alla condanna in primo grado affibbiata all’italiano di Bienne, il procuratore federale Sergio Mastroianni aveva chiesto quattro anni di reclusione, mentre la difesa - che ha preannunciato ricorso - si era battuta per l’assoluzione.
L’imputato, un calabrese domiciliato nel Seeland bernese, è stato giudicato colpevole di aver partecipato, dal 2003 al 2011, alle attività delle sezioni locali della ‘ndrangheta di Giussano e Seregno, in Lombardia, dove era conosciuto come “Cosimo lo Svizzero”.
Stando al tribunale l’uomo ha in particolare acquistato armi in Svizzera e le ha trasportate di persona in Italia.
Non è invece stata provata la sua partecipazione a sanguinose azioni della mafia calabrese a Torino, risalenti agli anni 2003 e 2004.
Un arsenale, che ora è sotto confisca, era stato rinvenuto nel 2015 nel garage dove lavorava e nel suo domicilio.
Il Tribunale federale, che è la più alta carica giuridica in Svizzera, ha cercato di provare la forte attività dell’imputato con la mala calabrese sia in Svizzera che in Italia, parlando di “ruolo di peso nella cellula di Giussano”.
La difesa ha parlato di “pura invenzione”, affermando che il loro cliente non ha mai portato armi o droga alle cosche, né partecipato all’evasione di membri verso la Confederazione.
Il processo d’appello potrebbe rivelare nuovi scenari dell’attività delle cosche tra Svizzera e Lombardia.
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