LO SFOGO
«Chiusi per colpa di un’accusa»
Archiviato il procedimento contro la Tintoria Zerbi: nessun danno all’Olona ma 81 dipendenti a casa

«Non era la Tintoria Zerbi a inquinare l’Olona, ma nel frattempo abbiamo chiuso». Parole amare ma anche liberatorie, quelle pronunciate da Davide Cova, ex amministratore dell’azienda di Lonate Ceppino. Un nome che viene oggi riabilitato dall’archiviazione del procedimento penale, già richiesto due anni fa dal Pubblico Ministero per mancanza di prove.
La storica impresa del Seprio finì nel 2013 nell’occhio del ciclone per un presunto inquinamento dagli scarichi.
Gli accertamenti imposero per alcuni mesi il fermo delle attività, contribuendo alla sua chiusura in un momento già critico, con la perdita di 81 posti di lavoro: «Ora, però, vogliamo vedere riscattata la nostra immagine», dice l’ex titolare.
«Non eravamo noi a inquinare e ci sono degli atti giudiziari che lo confermano in maniera definitiva». La società non c’è più, è in procedura concorsuale, con almeno una consolazione: molti degli ex dipendenti si sono ricollocati grazie all’esperienza maturata nel tessile o hanno goduto degli ammortizzatori sociali andando poi in pensione.
UNA FERITA APERTA
Cinque anni fa, dopo i rilevamenti, venne formulata l’ipotesi che fosse l’azienda a essere causa di alcuni valori delle acque fuori dai limiti, nonché delle schiume visibili ad occhio nudo. Una teoria a cui l’azienda si è da subito opposta.
«Abbiamo sempre contestato il punto dove venne prelevato il campione di acqua (alla bocca di scarico situata ben al di sotto del livello del fiume Olona e non al pozzetto ispettivo come prescritto per legge) - ricorda Cova - e abbiamo sempre fatto notare come anche dopo la chiusura per tre mesi dell’attività, imposta a seguito di quei controlli, le schiume non scomparvero».
Sta di fatto che venne aperta un’inchiesta e Cova ricevette un avviso di garanzia.
«Ciò fece di me un indagato, ma mai un imputato e men che meno un colpevole!», rivendica ora. Cova, infatti, in qualità di amministratore della Tintoria Zerbi, non è mai stato rinviato a giudizio.
Anzi, dopo la chiusura delle indagini, la presentazione di una memoria difensiva e l’interrogatorio alla Procura della Repubblica di Varese, il Pubblico Ministero chiese al Giudice per le indagini preliminari l’archiviazione.
Era il 20 giugno del 2016. Nel documento di richiesta di archiviazione c’è un passaggio molto chiaro che ne attesta le motivazioni.
«La parte (ossia i rappresentanti della Tintoria Zerbi indagati: Davide Cova e il suo consulente ambientale ndr) ha dimostrato che la presenza di schiume nel fiume Olona è notoria e che non vi è comunque prova che tale accadimento sia causalmente riconducibile alla propria attività».
Nel documento presentato dal Pm al Gip, con riferimento al prelievo del campione delle acque, c’è anche scritto che «il dato raccolto è ambiguo». Così come viene anche smontata la contestazione della presenza del rame negli scarichi della Zerbi.
L’IMPEGNO AMBIENTALE
Cova trova così la conferma della sua battaglia durata anni. Ma più che sollievo c’è tanta amarezza: «Non vi è comunque prova… Non poteva esserci. Avevamo da poco investito nel nostro impianto di depurazione circa 2 milioni di euro. A cui bisogna aggiungere gli 1,7 milioni di costi negli ultimi cinque anni di gestione. La nostra acqua presentava valori comunque non tali da giustificare una chiusura aziendale».
Una verità che pochi vollero ascoltare. Però lo stesso Gip il 26 giugno scorso ha predisposto l’archiviazione. Per prescrizione, sì, ma richiamando esplicitamente il documento del Pm che chiese la restituzione dei documenti e la chiusura del procedimento senza rinvio a giudizio già due anni prima.
«La storica sensibilità ambientale della Tintoria Zerbi - racconta Cova - era testimoniata da 35 anni di attività depurativa, sempre sotto stretta osservazione e sempre sottoposta a diversi controlli durante l’anno. Non abbiamo, prima dei fatti contestati, mai avuto degli scarichi oltre i limiti tabellari, mai alcuna questione. Quando il depuratore aveva dei problemi, venivano risolti tempestivamente, compatibilmente coi tempi tecnici necessari».
UNA SOCIETÀ SCOMPARSA
Il vero problema è che, però, oggi la Tintoria Zerbi non esiste più.
«La chiusura forzata di circa tre mesi dopo l’accertamento inevitabilmente creò i presupposti per quanto sarebbe poi tragicamente successo. Tre mesi di stop vollero dire per la società sostenere, solo tra paghe e contributi, costi per 1,6 milioni di euro, senza poter, dall’altra parte, produrre e dunque vendere e incassare alcunché».
A casa rimasero così 81 persone.
Eppure - ricorda Cova - il sistema bancario aveva dimostrato di credere nelle nostre potenzialità con un finanziamento, concesso solo pochi mesi prima dei fatti, nell’ambito di un’operazione di ristrutturazione del debito, in un periodo di pieno “credit crunch” e nonostante la crisi del settore tessile. Avremmo potuto farcela, avevamo buone prospettive di miglioramento».
Cova, oggi consulente nell’ambito tessile ma non più imprenditore, non nasconde la crisi di allora: «Come molte realtà del nostro settore eravamo in difficoltà, ma l’indagine è stata la spallata finale: avevamo anche individuato un settore in espansione, quello dello smaltimento dei rifiuti, che ci avrebbe fatto crescere. Le banche si fidarono. Potevamo restare sul mercato, ma stare fermi senza fatturato è impossibile».
STORIA DA RIABILITARE
Una situazione difficile da accettare anche per la sua onda lunga: «Ancora nel 2016 ci accusarono con lettere anonime di sversare liquami nell’Olona, quando in realtà l’azienda era già in procedura concorsuale e chiusa da tempo», ricorda ancora Cova per sottolineare l’accanimento generale nei confronti della sua azienda.
«Vogliamo riabilitare il nome della Tintoria Zerbi - chiosa - che ha operato per 80 anni dando lavoro nel tempo a centinaia di persone e contribuendo alla costruzione di un benessere diffuso sul territorio. Perché quello che è capitato a me, alla mia azienda e ai miei collaboratori non accada più».
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