LIDIA MACCHI
"Nostro padre, un mostro"
Le dure accuse delle figlie di Giuseppe Piccolomo, accusato del delitto del 1987. Il fratello della vittima: "Non cerchiamo un colpevole, solo giustizia"
Per ventisette anni la morte di
Lidia Macchi, la studentessa universitaria di Casbeno uccisa a coltellate e
trovata cadavere nel 1987 nei boschi di Cittiglio, è rimasta un giallo irrisolto. Ora, però, uno "spiraglio di luce", come lo
definiscono gli stessi familiari della giovane, è comparso in
mezzo al buio in cui sembravano immerse le indagini. La Procura
Generale di Milano prima ha tolto l'inchiesta dalle mani dei
pm di Varese e poi l'ha chiusa accusando di omicidio volontario
aggravato Giuseppe Piccolomo, l'artigiano di 64
anni di fatto un presunto serial killer, dato che è
già stato condannato all'ergastolo per il cosiddetto "delitto
delle mani mozzate" del 2009 ed è sospettato anche di aver
ucciso la moglie. E'
stata fatta "finalmente", come spiega Alberto Macchi, fratello
di Lidia, "un po' di chiarezza, anche se noi attendiamo il
lavoro della giustizia con discrezione, senza odio né voglia di
rivalsa". Alberto, che era un bimbo di pochi mesi quando venne
trovato il corpo della sorella di 21 anni, racconta con garbo
che le indagini della Procura di Varese sull'omicidio hanno
avuto certamente "alcuni limiti che ora sono emersi in modo
evidente, anche se poi non sta a noi della famiglia dirlo. Tra
questi, oltre alla cattiva
conservazione di alcune prove, anche la scelta degli inquirenti
di non far uscire mai formalmente dall'inchiesta Don Antonio
Costabile", all'epoca responsabile del gruppo scout frequentato
da Lidia. Il sacerdote, ora sessantenne, fu uno dei 4 religiosi
sentiti come testi nelle prime fasi delle indagini. Era parroco nella zona e
amico di Lidia, ma non c'era alcuna prova contro di lui e
l'esame del Dna tolse ogni dubbio. Per 27 anni, tuttavia, il suo
nome è rimasto nell'inchiesta: ci ha pensato il sostituto pg
Manfredda a chiederne l'archiviazione e a chiudere le indagini, in vista della
richiesta di processo, nei confronti di Piccolomo, anche
accusato di presunti abusi sessuali sulla ragazza. Intanto, da
questa anche per lui drammatica vicenda Don Antonio è uscito con
grande dolore e amarezza. Da qualche anno è responsabile del
servizio di catechesi della diocesi di Milano e tutta la sua
attenzione è rivolta a progettare i percorsi più adatti per
avvicinare i bambini alla vita cristiana. "Non ho mai detto
nulla e continuerò a non parlare di quella storia", ha risposto
gentile ma deciso a chi ha tentato di avvicinarlo.
Pacati anche i toni della famiglia Macchi, che valuterà nel
corso del procedimento se costituirsi come parte civile. "Noi -
ha spiegato Alberto - non dobbiamo trovare un colpevole a tutti
i costi e attendiamo il lavoro dei magistrati. Per noi - ha
aggiunto - Piccolomo è uno sconosciuto e da questo punto di
vista, se un processo provasse che è stato davvero lui, l'unico
sollievo nel dolore sarebbe che ad uccidere non è stata una
persona che frequentava la nostra casa".
Dure, invece, le
parole delle figlie di Piccolomo contro il padre. "Lui è sempre
stato un "mostro" di padre, un "mostro" di marito e un "mostro"
di uomo", spiega Tina Piccolomo. Le sue dichiarazioni a verbale,
come quelle della sorella Cinzia, sono risultate decisive nelle
nuove indagini assieme a una serie di altri elementi, tra cui un
identikit. "Abbiamo sempre detto ai pm di Varese - aggiunge
Tina - che lui aveva ucciso nostra madre e che ci ripeteva,
quando io e mia sorella avevamo 15 e 12 anni, che aveva
ammazzato Lidia. Intanto rideva e io pensavo che lo dicesse per
spaventarci, ma mia sorella è sempre stata convinta che fosse
lui l'assassino".
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